Poesia napoletana in una sola parola: schizzechea


Times Square, New York (foto by RedBavon)
Schizzechea a Times Square, New York (foto by RedBavon)
Il napoletano è una cosa meravigliosa

La lingua latina vanta il record della parola più breve di senso compiuto e cioè “ì”, seconda persona singolare del modo Imperativo del verbo “eo, is, ii, itum, ire”: “vai, va’ tu”.

Il dialetto napoletano vanta un’intera poesia concentrata in una parola: schizzechea.

Se voglio fare comprendere al mio interlocutore quanto il dialetto napoletano sia ricco di sfumature, non sempre altrettato efficacemente traducibili in italiano, utilizzo la parola schizzechea.

Schizzechea è infatti una parola di impareggiabile potenza espressiva, intraducibile in italiano nella pienezza del suo significato: viene da schizzeco, diminutivo di schizzo, che in dialetto napoletano non corrisponde a “goccia, stilla”, ma a “poco”.

Non esiste verbo italiano che corrisponda al napoletano scizzechea se non con larga approssimazione: il più vicino, indicato da molte fonti impropriamente, è “piovigginare”, ovvero “piovere leggermente, a goccioline minute e rade” (cit. Treccani).

Schizzechea però non si riferisce a una pioggia minuta, sottile, rada, bensì alla caduta di appena qualche goccia d’acqua, sottile e radissima, interminttente.

Il verbo schizzichià è un annuncio di pioggia che non necessariamente cadrà. Pioviggina, come spesso trovo tradotto, descrive già il cadere della pioggia. Schizzechea descrive quell’evento atmosferico in cui il tempo è incerto, i raggi di sole che giocano a nascondino con le nuvole, un segno del tempo che sta cambiando, come canta Pino Daniele nella canzone Schizzechea contenuta nell’album Schizzechea with love del 1988:

‘O sole che fa
Mo trase e ghiesce e intanto
Jamme cchiù llà
Schizzechea
Fatte guardà
Ma comme si’ crisciuto
Mammà comme sta
Schizzechea
Vorrei incontrarti per un’ora
E scivolare in quello che sarai
Per ricordarci ancora
Vorrei rubare per un’ora
Qualche sorriso e qualche storia però
Il tempo sta cambiando
Schizzechea […]

Schizzechea racchiude magnificamente la forza evocativa della parola che descrive un fenomeno comune e al contempo apre una vista più intima sull’anima. Descrive l’evento metereologico e insieme lo stato d’animo che, senza motivazioni razionali, ne viene influenzato. Quando schizzechea lo stato d’animo che spesso provo è un leggero senso di appucundria. Per l’appucundria, vagamente rendibile in un termine italiano di medesima efficacia e densità di sfumature, cito un estratto dall’articolo pubblicato su Treccani.it L’appocundria di Pino Daniele di Silverio Novelli:

Pino Daniele ha scritto e cantato molto nel suo grande dialetto napoletano, fonte di ricchezza per la letteratura e la canzone che da regionali, tante volte, si sono sapute fare patrimonio della nazione. E ci ha restituito, sovrimpresse di venature che in lingua sarebbero state opache, parole che, pur non essendo nuove, nuove suonavano all’orecchio, per via di una potenza evocatrice che soltanto il dialetto era in grado di sprigionare. Come nel caso di appocundria, interfaccia dialettale dell’italiano ipocondria, nel senso semanticamente vago di ‘profonda malinconia’, che tanto sembra addirsi (come hanno scritto Patricia Bianchi e Nicola De Biasi nel 2007, in Totò, parole di attore e di poeta) alla condizione della «napoletanità».

Schizzechea rimanda a un’estetica della parola, come scrigno di sentimenti percepiti come immagini. Nel pronunciarla se ne percepisce una densità fonica, che suona come verso, come poesia.

Il dialetto napoletano oggi è utilizzato per descrivere una “napoletanità” di superficie e di facile consenso. Le campagne pubblicitarie utilizzano il napoletano, come lingua e come “testimonial”, per promuovere essenzialmente cibo, neanche più appartenente alla sola tradizione napoletana: si tratta di una ripetizione di alcuni stereotipi, di un’operazione che cerca di replicare gli umori della napoletanità facendone mercato.

Nella condivisione virale di “meme” che suscitano una diffusa ilarità, molti sono scritti in una lingua che suona come “napoletano”. Anche in questo caso si tratta di una “mercificazione”: chi lo ha scritto non è napoletano (o se lo è per natali, non conosce il suo dialetto) e sta usando “Napoli” come “marchio” per dare più credibilità alla sua presunta comicità. A me non fa ridere.

Schizzechea è un’espressione che mi riconcilia con la felicità espressiva del dialetto napoletano fino a renderla – in una sola parola – un alto strumento di poesia.

L’immagine del post è una foto che ho scattato con il telefono durante un mio viaggio a New York. Ero a Times Square quando ha iniziato a schizzichià. Le gocce posate sull’obiettivo della fotocamera hanno creato questo quadro psichedelico di luci e colori che riesce a trasmettermi l’energia di questo iconico luogo nel cuore di Manhattan.

Leggi anche gli altri capitoli della Guida la(i)conica di Napoli

38 pensieri su “Poesia napoletana in una sola parola: schizzechea

    1. Pino Daniele negli album fino alla fine degli anni Ottanta è davvero un ambasciatore – senza volerlo – della lingua partenopea. Molti non capivano i testi. Molto simile a quanto accaduto ai primi film di Troisi: la critica più frequente era “non li capisco” 😜. A tutti quelli che mi dicevano che non capivano Pino Daniele gli rispondevo “Perché le canzoni in inglese le capisci?” 😂

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      1. La bellezza dei dialetti è proprio nelle sfumature che riescono a concentrare in una parola che in italiano non rende altrettanto. Rispetto al romano gnagnerella, schizzechea non ha la sfumatura della “molestia”. Vira piuttoeto verso l’appucundria.

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        1. Ci sono parole che in ogni dialetto Risultano incomprensibili E intraducibile In italiano.
          Ma si continua a definire dialetti lingue vere e proprie che fanno parte del tessuto storico culturale di una
          determinata regione. Io, piemontese trapiantata a Roma amo da Pino Daniele a Massimo Troisi ma sono in difficoltà nel capire un testo compiuto.
          Buon anno!

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          1. Un buon anno anche a te Sherazade e rilancio con un caloroso “benvenuta!” in questa webbettola! Io napoletano e ho in comune con te un’origine piemontese (cognome piemontese e origini di famiglia sabaude) e sono un emigrante a Roma (pare che nel nostro caso si applichi l’adagio delle strade consolari).
            Il problema dei dialetti è che si stanno perdendo e con essi parte delle nostre radici culturali. Il napoletano è una lingua (o dialetto) difficile da scrivere, leggere e pronunciare al pari di una lingua anglo-sassone. Gil stessi napoletani hanno dimenticato l’uso della lingua corretta nello scrivere. Un post su un annuncio funerario che ho fotografato a Napoli dimostra questa progressiva tendenza a dimenticare come si scriva la propria lingua.
            Non che io sia un esperto, anzi affermo che non lo sono affatto, ma amo la ricchezza del napoletano e con questa serie di post cerco di studiare e capirne un po’ di più.
            Ancora benvenuta!

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              1. Verissimo! Aggiungo che l’uso storpiato è così diffuso che ormai – nel caso del napoletano – è diventato quasi un “marchio”: i “meme” che girano in Rete in una lingua che suona come napoletano, risultano più efficaci nel suscitare l’ilarità perché scritti (male) in napoletano. Chi li ha creati non è napoletano o, se lo è, è un analfabeta della sua lingua. L’ennesimo stereotipo che affligge Napoli.

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    1. Molto vicino la sfumatura siciliana a quella napoletana per la rappresentazione dell’evento metereologico. Dubito però che in siciliano vi sia la sfumatura dell’appucundria, che è tutta napoletana. Grazie per l’apprezzamento compadre!

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  1. Mi limito a leggere sentire come ami la tua città e il suo dialetto. ormai molti dialetti sono corrotti o perché italianizzati o perché un approssimativo, ma molto approssimato ed annacquato dialetto fa sembrare quello come ciò che si parla in quella regione, in quel paese.
    Non sono un cultore di dialetti, né so parlare quello di Ferrara perché in casa e a scuola mi hanno sempre parlato in italiano.

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  2. Conosco e apprezzo il verbo grazie a mia madre, che sebbene sia cresciuta a Roma è di origini napoletane e ha sempre mantenuto il legame con quella cultura: sono cresciuto con Eduardo e Totò, gli idoli della cultura romana li ho conosciuti tardi e non ci ho stretto molto legame.
    Quindi alla gnagnarella romana ho sempre associato anche il verbo partenopeo. In realtà a Roma è diventato molto raro sentire espressioni dialettali, come invece succedeva con le precedenti generazioni: zii e nonni avevano un patrimonio di cultura locale che non so quanto si sia mantenuto. Certe cose romane le sento dire solo a Diego Bianchi in TV 😛

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    1. Ricordo, ricordo. Con una periodicità del “quando tengo genio” sto continuando a raccontare Napoli. Ormai ho vissuto più anni fuori che a Napoli, ma non ho perso questo legame, piuttosto che solo per esserci nato e avere tutta la famiglia di origine napoletana, ma perché mi sento “napoletano”. Ne ho ancora da scrivere, la materia chiaramente non manca, e in bozza ho già qualcosa, ma è il solito tempo a essere scarso. Di certo continuerò ad alimentare questa rubrica e ti accoglierò sempre con un “Favorite…” (che suona più un comando che un invito) altrimenti mi offendete signuri’ 😜

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  3. Un articolo bellissimo il tuo. Da gustare in un adeguato momento di riflessiva tranquillità. Fai onore alle tue origini e alla tua lingua (dialetto mi sembra riduttivo). Spettacolare. Grazie della spiegazione, dell’etimologia e dell’interpretazione. Schizzichea è una “goccia” che, posata sulla lingua diffonde profumi e sapori in tutto il palato. Sentimento, in questo caso. Verrebbe da dire Saudade… Anche la tua foto è, in sé, una perla altrettanto luminosa. Grazie (è sempre un piacere soffermarsi sulle tue pagine). Un caro saluto. P.

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    1. OnPaolobello che piacere rileggerti in questo spazio! La saudade ci va paurosamente vicino alla nostra appucundria, ma vi aggiunge una sfumatura di nostalgia che al termine napoletano manca. Mentre infatti la saudade si riferisce a un legame affettivo, nel napoletano invece è l’assenza di un legame ovvero un “malinconico distacco per qualcosa di indefinibile che non è, non è stato e non è potuto essere” (come Treccani definisce perfettamente). È parte di quel sentimento trasversale di scetticismo e fatalismo di cui è impregnata tanta letteratura e musica napoletana, espressione di una ”peculiare predisposizione alla vita” – se così possiamo definirla – del popolo napoletano. Stupenda l’immagine della “goccia” che si posa sulla lingua. Hai saputo cogliere meglio di me la poesia nascosta in questa parola. Chapeau! Un abbraccio.

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