
Segue da Ep.#17 – Chichén Itzá
Il Tempio di Kukulkan, cioè la piramide di Chichén Itzá con i suoi 30 metri e 91 scalini è un guanto di sfida per noi quattro, che da caballeros, entriamo nei panni, parecchio improvvisati, di alpini. Dopo la prima scalata alla piramide di Cobà, il nostro palmarès sta per arricchirsi di un’altra epica scalata.
Nel consueto sacrale silenzio, iniziamo la nostra ascesa. La foto a corredo mostra con paurosa evidenza il pericolo. Appaiati in una posa plastica e quasi in sincrono, mio fratello Lucio (a destra) ed io (al centro) procediamo concentrati. I miei genitori sono andati vicini all’estinzione della “razza” in un colpo solo: come buttare i propri geni alle ortiche a causa di due degeneri.
Attraverso questa immagine quasi riesco ancora a percepire la tensione dei muscoli delle braccia e la tremarella nelle gambe. Il nostro sprezzo per il pericolo e la nostra autostima subisce un drastico ridimensionamento quando incrociamo quella donna, sulla sinistra, che scende eretta e, per giunta, mostrando non chalanche con tanto di borsa a tracolla.

La scalata è ripagata dalla vista spettacolare: il colpo d’occhio sulla giungla circostante, come a Cobà, mozza il fiato, ma qui, con tutto il sito archeologico ai propri piedi, è possibile meglio comprendere che, da questa posizione, il senso di onnipotenza e di vicinanza a Dio per il Gran Sacerdote non era un delirio sotto l’effetto di sostanze allucinogene, ma una “solida realtà”. Parola di Roberto Carlitos.
La tecnica di discesa è ormai consolidata e avviene con una postura più adatta a un ragno, piuttosto che all’Homo Erectus: sedere rasoterra, mani saldamente piantate a terra, un piede in avanti e giù a cercare la superficie del gradino più in basso, piano, segue l’altro piede; consolidata la posizione dei piedi, segue il resto del corpo in un moto continuo di trascinamento, fino al gradino più basso. Se cliccate sulla foto della scalata, potete notare oltre la donna che scende, un tipo in t-shirt blu che adotta questa tecnica del “ragno cagasotto”.
Ogni passo è pesato, pensato, a ognuno degli scalini hai recitato una muta preghiera e alla fine dei 91 scalini sei a metà della recitazione del Santo Rosario, ma lasci perdere l’altra metà perché tanto la possibilità di ottenere un’indulgenza è sfumata dato il numero cospicuo di maleparole e bestemmie che hai proferito tra un gradino e l’altro.

Altra particolarità del sito di Chichén Itzá è il campo del gioco della Pelota, il più grande di tutta la Mesoamerica. Il gioco consisteva nel fare scivolare una palla di caucciù, poco più grande di una boccia, attraverso due anelli di pietra, posti sulle pareti laterali del campo che ha una pianta a “I” maiuscola con le grazie.
Il gioco della Pelota era diffuso già tra le popolazioni prima dei Maya, presso gli Olmenchi, e, per avere un ordine di grandezza della sua diffusione in tutta la Mesoamerica si consideri che venti anni fa si era a conoscenza di 651 campi, oggi se ne contano 1500 (fonte: Factoria Historica)
Vinceva chi per primo infilava la palla nell’anello. I giocatori non potevano toccare la palla con le mani o i piedi, ma esclusivamente con le ginocchia, i gomiti e i fianchi. Stupisce la grandezza del campo: la foto scattata da mio fratello al resto del gruppo dà l’idea della scala delle dimensioni. Ma ancora di più stupisce la posizione degli anelli: sono a metà di ognuno dei due muri laterali a circa 7 metri di altezza. Mi sono sempre chiesto come facesse un giocatore, per giunta di statura modesta come un Maya, a centrare l’anello senza usare le mani!

Lungo la base dei muri, i bassorilievi danno indicazioni su come erano abbigliati i giocatori: indossavano a protezione larghe cinture che coprivano le parti più vulnerabili e una sorta di paracolpi alle braccia, ascelle e ginocchia. Questi rilievi mostrano anche un particolare macabro: il rituale sacrificio dei giocatori per decapitazione. Non è chiaro se i decapitati fossero i perdenti o i vincitori. Il gioco – in occasione di rituali associati alla guerra – era “truccato” nel senso che vi partecipavano i prigionieri, il cui destino era ormai segnato. È possibile tuttavia che il capitano dei vincitori venisse decapitato poiché aveva dimostrato sul campo di essere il più forte e quindi il più degno di essere donato alle divinità. Noi, poi, ci lamentiamo che in Italia non esiste la meritocrazia…

Il sito è vastissimo e il sole inizia a picchiare come un fabbro: nonostante ciò, la bellezza e l’aura mistica di questo luogo e delle sue costruzioni spinge a visitarlo, soffermandosi il tempo di sorseggiare dalla bottiglietta un po’ d’acqua ormai calda come una tisana, lamentarsi per l’acido lattico che ormai è in concentrazioni tali da avere superato abbondantemente le “quote latte” stabilite dalla Comunità Europea, un classico botta&risposta tra i “bellissimo” (a qualsiasi sasso) di Frank e i “vafanculo” di Diego, che essendo il più chiaro di carnagione sta soffrendo come una mazzancolla sulla griglia.
Sul lato orientale della grande piazza nel cui centro si erge El Castillo, si trova un altro imponente complesso: il Tempio dei Guerrieri, una piramide a gradoni circondata da ampi portici. In cima alla piramide, giusto per non smentire l’ossessione tolteca ai sacrifici umani, c’è la statua di Chac Mool, che aveva la funzione di altare sacrificale.

Alla base di tale tempio, vi è il Gruppo delle Mille Colonne: si tratta di una vasta piazza che ha la forma di un quadrilatero irregolare, con alcune strutture sul lato est e sud, tra cui quella chiamato “mercado”. Con molta probabilità questo era luogo di scambi e riunioni durante la vita quotidiana.

Altro edificio affascinante è l’Osservatorio, chiamato El Caracol. Forse è la costruzione che mi ha più colpito dal punto di vista architettonico: è evidente la somiglianza con un nostro osservatorio astronomico, sarà una coincidenza…Mah cosa ci faranno i Maya in questa struttura su due livelli. Il primo pensiero che viene è: sacrificio umano! Ogni posto è buono per ingraziarsi la divinità e, sopratutto, fare sparire qualche avversario in amore o la suocera. El Caracol, invece, è – banalmente – una costruzione utilizzata dai Maya per…studiare i cicli della luna e delle stelle…”banalmente” un caspito! I Maya costruivano osservatori astronomici proprio come i nostri nel IX secolo dopo Cristo, con la “piccola differenza” che il primo osservatorio astronomico italiano fu quello di Bologna, fondato nel 1725.
Se pensiamo quanto fitta dovesse essere la foresta all’epoca, possiamo immaginare che, per potere osservare il cielo e i moti degli astri, fosse necessario essere in una posizione sopraelevata e – ormai non dovreste stupirvi più di tanto se avete seguito gli “episodi” precedenti – i Maya non posavano le pietre a caso: pianta e aperture di El Caracol sono allineate ai movimenti di Venere, al tramonto e al sorgere del sole durante i Solstizi e gli Equinozi.


Iniziano a farsi sentire i morsi della fame, siamo ormai all’estremità più a sud del sito, in cui vi sono gli edifici risalenti al periodo Classico, la parte dall’architettura maya che ha subito meno l’influenza tolteca: il Complesso des Las Monjas, La Iglesia e La casa delle iscrizioni misteriose. Ci lasciamo alle spalle El Caracol, ma rimango indietro al gruppo, rimango qualche altro istante a fissare quella cupola, la sua terrazza, le feritoie…E mi immagino nella notte buia e senza luci, in cielo sembra ci sia una nuvola a perdita d’occhio e, invece, è la Via Lattea fittafitta di stelle come non ho visto mai. Nel folto della giungla, l’odore acre di qualche falò, qualche verso di animali in lontananza, un paio di sacerdoti lissù sulla terrazza della cupola che discutono animatamente: “L’ho vista prima io!” “No, io!” “No, no l’ho vista prima io!” ” Ah sì? Guaaarda quellaaaa! Ho visto quella più grande io!” “E mica vale la più grande!?” “Come no? Stella cadente più grande, desiderio più grande!”
E chi non viene con noi all’Iglesia, non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, lo colga Montenzuma e tutta la sua pupù!
Onda sonora consigliata: Figli delle stelle di Alan Sorrenti & Anane Vega with Element of Life Little Louie Vega Mix
Spettacolare…rosico..😊
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Aspe’ non rosicare ora, se mi regge la tastiera quando arriviamo a Palenque (e ce ne vuole un po’) ti piglia malissimo. Io al solo pensiero mi sto rosicchiando le pellecchie delle unghie!
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Minc….le mani gia’ sono partite che faccio rosico quelle dei piedi?????? 😡😡😡
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Ah ah Ah, scusa non ce l’ho fatta! Mi è scappata una risata. Visto che ti sei unita da poco al gruppo-vorrei-fare-una-vacanza-in-Messico immagino che tu abbia letto due tappe che potrebbero, da una parte, infonderti una pace interna e riconciliarti con la bellezza del mondo e, dall’altra, causarti un attacco di bile. Non saprei, te li metto qui perché, fosse solo per le foto vale la pena. Non me ne volrere, sei libera di non cliccare. Liza avvisata, unghia mezza salvata.
#9 – Cozumel. Don’t worry, be happy
Ep. #11 – Tulum
Se poi vuoi capire come è nato El Bavon Rojo e perché è proprio a Punta Allen allora vai pure qui:
Ep. #13 – Sian Ka’an, alla laguna e ritorno
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Bene bene comincero’ a leggere ! 😊
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Sei una donna coraggiosa! 😉
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Emicacazzi Red.!😂😂😂😂
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Ecco sì volevo dire esattamente così, ma ho avuto un lapsus (o raptus, non so) di italiano formale
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Oh mon cher se vuoi saremo formalissimi oui?
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Peccarità, già con l’italiano ho le mie difficoltà, con il francese poi vado a botte di celle di memoria non-morta dai tempi del liceo…Je suis tres desolee, ma chere.
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Mais non mon petit ton français c’est tres jolie! 😄😄😄
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Mi hai ricordato un piccolo episodio accaduto a me a buonanima di mio papà a proposito di “francesi”.
La mia famiglia ha vissuto per molti anni a Frosinone, ma il legame con Napoli era indissolubile e stretto. Dopo sedici anni – mica bubbole – mio papà ottiene il tanto agognato trasferimento a Napoli, quindi prendiamo baracca e burattini e tutta la famiglia ritorna a Napule.
Un giorno, ero in auto con papà, cerchiamo parcheggio al centro a Napoli (piazza Umberto, se hai presente) e – per un puro colpo di fortuna – ne troviamo uno, anche se un po’ stretto. Perciò, io scendo dall’auto prima che papà parcheggi.
E mentre aspetto, mi godo la seguente gustosissima scena.
Due parcheggiatori – regolarmente abusivi – discutono animatamente guardando e indicando l’automobile di papà mentre parcheggia. All’epoca le targhe automobilistiche riportavano la provincia: nel nostro caso “FR” per Frosinone.
Uno fa all’altro:”FR? Effe Erre e cher’è ‘sta targa? Arò vene?” E l’altro si gonfia di autorevolezza e con grande supponenza gli risponde: “Maronna, ma nun o’vire! FR…So’ francise!”
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😂😂😂😂😂😂😂
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Sempre belli queste cartoline di viaggio.
La partita a pelotas sarebbe interessante se ad essere uccisi fossero i vincenti. Praticamente l’anteprima del baseball… partite enormi, lunghissime e noiose come la morte, finché qualcuno non ha la sfiga di vincere e là… son teste che cadono.
Ho la netta sensazione che il “vaffanculo” sarebbe uscito, a più riprese, anche a me. Una sorta di collezione di vaffa da portare in viaggio.
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Il buon Diego lo usava senza malizia o spregio, era una sorta di “saluto al sole” la mattina appena svegli (e ci sta) e un mantra tutti-i-gusti e ogni-tempo durante il resto della giornata.
Un contro-altare alla grande positività e grinta di Frank; Diego aveva il ruolo di riportarci a terra con i piedi ben piantati a terra.
Sul gioco della pelota ci sarebbe da dire molto altro, legato moltissimo alla simbologia, ai riti della fertilità (connessa anche alla decapitazione) e, in alcuni luoghi, era praticato davvero a livello ossessivo, anche peggio del calcio da noi. A El Tajin si contano qualcosa come 17 campi di pelota!
Veniva utilizzato anche in alternativa alla guerra: questa sì che sarebbe una grande idea!
I sacrifici umani, comunque, erano più una fissazione tolteca e le fonti archeologiche indicano che la connessione tra il gioco e i sacrifici appare piuttosto tardi nel periodo Classico, cioè a partire dal 700 d.C, mentre il più antico campo scoperto (sulla costa Pacifica) è datato 1400 a.C.
Insomma, più vado avanti, più mi rendo conto di quanto è complessa e fantastica questa varia cultura mesoamericana, che noi etichettiamo tutta come “Maya”. Certe volte, penso che se a scuola ci insegnassero meglio la storia antica, forse saremmo un popolo migliore.
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Il saluto al sole ci sta… e anche come mantra. Io supporto sempre questo tipo di attività ludiche.
Interessante, invece, questa cosa della pelota. Riuscire a far finire una guerra con una partita a pelota è un’idea non da poco. Anche perché, sottolineo sempre, non si potevano usare mani o piedi. Cosa non mica da ridere.
Sul fatto che siamo persone grezze perché non sappiamo la storia è un dato conclamato.
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Il ragno cagasotto hahaha! Comunque dalla foto sembra davvero ripido, e poi il campo di pelota mi ha ricordato una scena del film Apocalypto. Spettacolo di contesto, chissà di notte che succede lì.
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Caro Clì, non è ripido…Guardando in basso dalla sommità della piramide, è praticamente una parete da alpinista! Se qualcuno ti facesse vedere una foto che riporta la vista da sopra e poi ti dicesse “ora sali”, resteresti da basso.
Di notte, si tengono degli spettacoli di luce e – sebbene sia “turistico” in tutto il suo senso consumistico – credo che sia piuttosto spettacolare vedere le ruinas illuminate. Di certo, sarebbe bello che illuminassero tutto con fuoco naturale, tipo torce e falò però poi credo che il livello di strizza salga a livelli…paurosi.
Qui un link delle Noches de Kukulkan, le visite guidate di notte: http://nochesdekukulkan.com/?lang=it
Il video già rende bene, ma le foto sono eccezionali.
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Suggestivo, magari un giorno avrò la fortuna di andarci, chissà…
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Io rosico per il semplice fatto di esserci passato diverse volte, dal sito, senza per questo avere provato mai a fermarmici. Rosico ancor di più adesso, nel leggere la tua brillante cronaca e nell’ammirare le tue stupende foto. Oltre che nel rammentare analoghe emozioni nello scalare le piramidi, con pure i dovuti strizzoni…….
Un abbraccione stellare
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Io mi ritengo fortunato a esserci stato, anche perché sembra che abbiano chiuso sia la possibilità di entrare nello stretto cunicolo interno sia di salire in cima al Tempio di Kukulkan. Sembra che sia morta un turista e quindi hanno chiuso pure la salita, come successe a noi per la piramide dello Stregone a Uxmal. Ancora rosico per Uxmal, quindi ti capisco e non ti conforterò inutilmente. Diamine Silvia’! Tocca tornarci il giorno dell’Equinozio per vedere l’ombra del serpente e poi la notte…Ti immagino che strizzone essere lì di notte?
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Capisco che qualcuno possa essersi fatto male sul serio o anche lasciandoci le penne:sono terribili quei gradini. A Uxmal ci ho impiegato una vita per scendere dal palazzo del governatore, nonostante ci fosse la catena a dare più sicurezza…
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Eh uno ci scherza ma quei gradini fanno davvero spavento, ma diamine che bello essere lassù. Unico, davvero unico.
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Una sensazione impagabile… Dalle rovine di Palenque, in mezzo alla selva, si può scendere appena un poco, seguendo un sentiero, trovando il paradiso di un ruscello che forma delle vasche d’acqua cristallina dai molteplici colori del cielo… Mi sono sempre chiesto il motivo di come nel Chiapas le acque dei laghi e dei fiumi riescano ad avere quella molteplicità di colori brillanti e nitidi che solo l’acqua del Caribe…
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Ricordo quel luogo in mezzo alla foresta e al nulla e prego, PREGO di riuscire a rendere la sua bellezza con il mio italiano crocifisso. Luogo mistico, il mio preferito di tutto il viaje.
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Abbi fiducia che ci riuscirai, mi raccomando: voglio rivivere nelle tue parole la magia di quei luoghi…
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