Si trasuto ‘e stritto e ti si mise ‘e chiatto!


Il napoletano è una cosa meravigliosa Ep. #4 (e n’anticchia)

La rubrichetta in lingua parte-nopea e parte-italiana giunge al quarto appuntamento: il primo dedicato allo strummolo, il secondo agli scugnizzi più uno “spin-off” allo sciuscià, il terzo al verbo arrevutare.

Casus belli neapulitani è uno scambio di commenti con Tati nella sua webbettola: mi è partita una scheggia di napoletano e così, dopo circa due mesi, rilancio e raddoppio con uno spassosissimo modo di dire e un inciso dedicato alla “colazione”.

Guagliu’, jamme belle! (ragazzi, diamoci una mossa!)

Si trasuto ‘e stritto e ti si mise ‘e chiatto

Se provate a inserire questa frase nel campo di ricerca di quel saccentello di Google, ricevete un risultato che è ortograficamente errato, ma si avvicina molto alla pronuncia esatta:

Forse cercavi: Si trasut ‘e stritt e ti si mise ‘e chiatto

Il napoletano è una lingua complicata tra elisioni, troncamenti, apostrofi e aferesi. Come le lingue straniere, si scrive in un modo e si pronuncia diversamente. Non provate a dire che il napoletano è come una lingua straniera: viene dal latino ed è la seconda lingua più parlata nella nostra penisola.

Non sono un esperto e, quando scrivo in napoletano, commetto anche io una valanga di errori. Tuttavia se Google insiste a correggermi, piglia asso pe ffijura!

Si trasuto ‘e stritto e ti si mise ‘e chiatto  si pronuncia tutta di seguito senza pause, facendo cadere le vocali finali cioè, più o meno così:

si trasut’e stritt’e ti si mmis’e chiatt

La doppia “t” dell’ultima parola è marcata, pronunciata con enfasi, leggermente allungata come suono, ci si “appoggia” tutta la frase.

Letteralmente si può rendere così:

sei entrato di secco e ti sei messo di largo

o ancora:

sei entrato di fianco e ti sei allargato mettendoti comodo (a scapito degli altri)

Si usa questa espressione per stigmatizzare un comportamento scorretto: sta a indicare, infatti, una persona che si presenta in una data situazione con discrezione, timidamente, con grande garbo, ma immediatamente prende confidenza e aumenta a dismisura le sue pretese.

È applicabile nel quotidiano di frequente: per esempio quando siamo in fila o in un vagone affollato della metropolitana; al lavoro quando una persona, con modi inizialmente garbati, quasi sottomessi, cambia poi atteggiamento e sgomita per primeggiare ai danni degli altri; quando si riceve da un amico una richiesta in tono garbato, quasi dimesso, e una volta ottenuto quanto richiesto, si comporta in modo arrogante e si rivela la persona pretenziosa che non avevi notato prima di allora.

Si trasuto ‘e stritto e ti si mise ‘e chiatto è una frase legata soprattutto al ricordo di quando andavo allo stadio San Paolo per assistere alle partite del Napoli. Mi riferisco a moltissimi anni fa: giocava quel fenomeno di Diego Armando Maradona. Non entro nel merito della sua vita privata, esposta a torto o a ragione al pubblico, ma sul campo di calcio – posso assicurarlo – era un autentico fenomeno. A guardarlo giocare, chiunque con un minimo interesse per il calcio si sarebbe convertito.

Ebbene, questa frase allo stadio era ricorrente.

Mio cugino Valentino e io andavamo allo stadio in motorino, sciarpette azzurre al collo e con l’entusiasmo a mille, in qualsiasi condizione meteorologica. Era un rito: alla guida Valentino, “metà-uomo/metà-motorino” per le ore che trascorreva in sella a quel “Sì” della Piaggio, e io dietro.

Per trovare un posto decente ci avviavamo allo stadio svariate ore prima: non esisteva nessun seggiolino, nessun posto assegnato, solo gli spalti di solido e duro cemento: i posti migliori erano quelli verso la parte bassa della curva, i più vicini al campo. Si assisteva alla partita rigorosamente in piedi.

Via via che sia avvicinava l’orario dell’inizio della partita, gli spalti si affollavano fino a diventare un muro compatto, variopinto e punteggiato di azzurro. Nell’attesa, scambi di chiacchiere tra i vicini, prove di cori da stadio (non sempre ripetibili in presenza di minori), aggiornamenti sull’ultimo disco di una tale band (mio cugino era una miniera musicale e devo a lui parecchie “scoperte”), una canna(bis) che partiva da un punto imprecisato della curva e si faceva il giro (capisco la convivialità rituale, ma è oggettivamente eccessivo e contro ogni regola igienica), il tempo di addentare la “colazione”.

Contrariamente al resto del mondo, la “colazione” non è soltanto il pasto, più o meno frugale e veloce, che si consuma a inizio giornata. Il termine “colazione” viene utilizzato anche per indicare la consumazione di un pasto non a tavola e nel mezzo della giornata. Se a mezzogiorno siete nei pressi di un cantiere a Napoli, potrete sentire i manovali dire che è l’ora della “colazione”. Questa colazione non ha nulla di frugale.

L’elemento fondamentale è un particolare pane napoletano: ‘o palatone, noto anche come pane cafone.

‘O palatone [foto da web]
Le caratteristiche del pane cafone sono la mollica ben alveolata, morbida ed elastica e la crosta esterna scura, più dura e croccante (cit. Giallo Zafferano). La forma può essere a pagnotta o a filone.

Quest’ultima forma è l’ideale per la “colazione” in quanto la si taglia in due, si scava all’interno di una delle metà con la mano, togliendo la mollica; l’incavo così ottenuto si riempie fin quasi all’apertura con ogni ben di Dio, preferibilmente soffritto e unto di modo che il pane s’impregni di sapore; infine si tappa l’apertura con parte della mollica prima tirata via dall’interno.

Il mezzo filone così imbottito è la “colazione”.

Dovendo arrivare un paio di ore prima allo stadio per riuscire ad assistere alla partita da una posizione decente, la “colazione” è perfetta come pasto da consumarsi verso le due, due e mezza. E dopo ci sta bene anche un caffè BoGGhetti! Nefandissima bevanda al sapore di caffè a marchio Borghetti, che i miei conterranei pronunciano sostituendo la “r” e rafforzando la “g” per motivi inspiegabili.

Ho visto…

Altro che navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, altro che i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser!

Ho visto mezzi-palatoni trasudanti di peperoni saltati in padella con aglio, olio, capperi e olive. Ho visto palatoni ‘mbuttunati (imbottiti) di parmigiana di melanzane (le melanzane vanno fritte, non alla griglia); ma la Regina delle “Colazioni”, senza ombra di dubbio e per oggettiva rilevazione statistica di chi scrive, è: il palatone con sasicce ‘e friarielle.

Rinuncio alla mia “crociata” contro chi chiama ‘e friarielle con un altro nome e si ostina a considerarli come una verdura “normale”, cioè non tipica e introvabile al di fuori di un’area circoscritta della Campania. L’importante è che pronunciate friarielle con la prima “e” rigorosamente stretta e l’ultima “e” muta.

Sappiate che è una bomba di immane squisitezza rustica, che potrebbe sancire la pace tra vegani e carnivori. Alla faccia dei buoni sapori contadini di una volta che oggi ci spacciano a prezzi usurai gli imbonitori di slow-food, mangiare-italiano, mangiare-sano e bio-logico a prezzi il-logici.

Lo scarto della “colazione” è da raccontare.

Il tipo vicino a te fruga in una sacca e ne tira fuori un incarto di generose dimensioni: trasuda unto. In origine doveva essere carta oleata, ora è proprio carta unta e bisunta.

Una bomba di acidi grassi saturi e polinsaturi con la sicurezza di seri danni epatici se non fossi certo che qualsiasi cosa sia stato fritto, è stato immerso nell’olio extra-vergine d’oliva.

Lo sguardo del tuo vicino brilla del sicuro godimento imminente. Occhi fissi sull’incarto, finché non lo srotola parzialmente, rivelando “qualcosa” che per un affamato vale molto più del Quarto Segreto di Fatima: ‘a colazione!

Si spande un profumo che per un attimo ti sembra di essere tornato indietro nel tempo, la vita contadina, il sudore nei campi e dopo mezza giornata tra il sole battente e zolle di terra, abbandonarsi all’ombra di un albero di gelso il cui tronco è sollievo e sostegno della tua schiena spezzata: è ora di una meritata pausa, è ora della “colazione”.

Avanti-veloce >> Il tempo di renderti conto che sei allo Stadio San Paolo e, per giunta, tu e la campagna siete agli antipodi come Stalin e il Papa. Il profumo persiste e si fa anche più vicino. Il tipo si è voltato verso di te, ti porge la sua “colazione”, ti guarda fisso e ti invita a dividerla con lui: “Favorite?”.

“Favorite?” un invito rivolto da uno sconosciuto a uno sconosciuto, scarna eppure così densa di garbo e spontaneo invito a una convivialità impossibile solo da immaginare qualche centinaio di chilometri più a nord: sempre in Italia, mica in Lapponia.

“Favorite?”. Non ho mai accettato. Non perché l’invito fosse falsamente posto o fossi diffidente, piuttosto mi è sembrato giusto che si godesse in santa pace la sua “colazione” e con altrettanto garbo ho ringraziato.

L’ora del calcio d’inizio si avvicina, gli spalti ormai sono gremiti, il fumo delle “canne” si mischia con quello delle sigarette, sigari e candelotti di fumogeni.

Il brusio della folla inizia a gonfiarsi e le frange di tifoseria più accanita ormai elevano a più non posso cori d’incitazione ai giocatori del Napoli e sfottò alla squadra avversaria. Gli spalti sfrigolano per la tensione.

Il rito delle “colazioni” è stato consumato da un pezzo, ormai sono al secondo caffè BoGGhetti e se il fegato potesse decidere come farla finita, preferirebbe gli acidi saturi e polinsaturi, sì meglio lo strutto fritto che questo liquido marrone al gusto di caffè!

In questa anticamera di bolgia infernale, appaiono i ritardatari.

Appena giunti sugli spalti, i ritardatari puntano risoluti verso la parte bassa della curva, li senti arrivare con una cadenza di un educato “permesso…permesso…permesso”. Non percorrono le scalinate tra gli spalti, anche perché sono anch’esse gremite di tifosi. Puntano nel mezzo della folla.

Un “permesso” si avvicina, si avvicina sempre di più.

Ecco, ce l’ho alle spalle. “Permesso…”,  mi sposto lateralmente con un po’ di fatica perché ormai la folla è tutta in piedi ed è a ranghi serrati. Nello spostarmi provoco una piccola onda di spostamenti in linea orizzontale che va smorzandosi via via che si allontana dalla mia posizione.

Il ritardatario passa oltre e continua con la sua litania di “permesso”.

Più in basso, il ritardatario ha deciso che il posto è “buOno”, dopo l’ultimo “permesso”, si è fermato e ora si è sistemato. È pronto per assistere alla partita.

Puntuale giunge la voce di qualcuno vicino, che pressato dal nuovo arrivato, gli comunica tutto il suo sdegno e tutta la sua contrarietà a cotanta invadenza:

“Bello d’ ‘o fra’! Sì trasute ‘e stritte e ti si mise ‘e chiatto!”

In questo caso, l’espressione contiene anche un sottinteso invito a scegliersi un altro posto e, in termini altrimenti più vicini al contesto dello stadio, a levarsi dai coglioni.

Normalmente una simile insofferenza è mostrata anche da tutte le persone vicine e pertanto consiglia al ritardatario di spostarsi più in là e provarci ancora fino a che non trovi qualcuno che non gli faccia garbatamente notare che è trasute ‘e stritte e s’è mise ‘e chiatto.

Il napoletano è una cosa meravigliosa.

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49 pensieri su “Si trasuto ‘e stritto e ti si mise ‘e chiatto!

    1. Questi detti mi stupiscono sempre perché sono chiari, mai ridondanti e una sintesi del popolo napoletano nel tempo. Perciò si dovrebbero preservare e la lingua insegnare. In Trentino si insegna italiano e tedesco. In Campania italiano e napoletano. Perché no?

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                    1. Non per nulla ci avete invasi è il mio cognome è piemontese. Sarà di qualche emigrato torinese a Napoli dopo l’annessione 😂😂😂
                      —-
                      PS: a scanso di equivoci non sono filo-borbonico, ne’ Borbone-nostalgico. Però chiamiamola com il suo nome questa “unificazione” da parte dei sabaudi ja’!

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                    2. Verissimo…. e qui salta fuori il maestro che è in me, l’Unità d’Italia è sacrosanta, ma storicamente è da riscrivere……ci sarebbero tante, troppe cose da far venire alla luce dei libri e sussidiari. Un esempio? Il fotr di Fenestrelle, vero e proprio lager ottocentesco dove sono morti migliaia di borbonici fedeli al vecchio regno (ahimè)

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        1. Vero. Considera che quasi mai la di pronuncia “arraggiati” (arrabbiati), ma con pacatezza e trattenendo la maledizione sottintesa che “esplode” nelle ultime due “t”. Conta molto anche il paraverbale nel capire quanto il non-detto sia più di minaccia o di ironia.
          Comunque io mi sbellico sempre quando la sento. Mi piace anche il suono quando la pronuncio.

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  1. Sinceramente faccio fatica a non considerarli, i tuoi consigli, come una vera e propria istigazione al suicidio. Così sarebbe, non avessi memoria della cucina sicula: panelle fritte, arancine fritte, patate fritte, bistecche fritte, pesce fritto, melenzane fritte, zucchine fritte…
    Possibile che, al sud, dove il caldo ti fa sudare e friggere nel sudore, si debba mangiare tutto questo fritto?….

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    1. Noi meridionali ci teniamo al fegato. Lo teniamo allenato!
      Poi ho sentito dire che pure na ciavatta è bbbona se fritta.
      In merito al caldo è risaputo che i tuareg bevono tè caldo così da compensare a livello corporeo il caldo esterno. Il fritto, che va mangiato caldo, è rimedio simile o no? 😂

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  2. Fantastico!!!!Ho riso più volte. E ho tentato più volte di ripetere questa frase, con il mio accento sabaudo (la sabaudità è forte in me, me l’hanno detto recentemente proprio in questi termini, e non parlavano dell’accento). Ho lavorato per trent’anni a fianco di un napoletano verace, e ricordo ancora con affetto i suoi modi non verbali di farsi capire, per cui credo di aver immaginato correttamente anche la pronuncia… Buon proseguimento!

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    1. Ahahah immagino la tua espressione quando al tuo collega partiva l’embolo di napoletanita’! Spiazzante, ma non lasciarti ingannare dalla “musicalità” del suono. È una sentenza senza appello: la lama del boia che cala sul collo del condannato. La doppia “t” finale è…tombale.

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  3. Meraviglioso Red!!!
    Da troppo non ti leggevo in cotanta ispirata e colorata facondia.
    Grandioso Red! Questi brani vanno assolutamente conservati con cura. Fai un back-up, apri un palatone e ficcaceli dentro, per i posteri… Eh?, cosa?… Ok, Ok! Friggili pure, prima, non credo gli faccia male, anzi… Sono una vera leccornia!!
    Ora lascio passare un momento… Ma non vedo già l’ora di gustare il prossimo!

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    1. “Non è mai troppo tardi” 😉 Così dice il vecchio adagio e ci sarà pure qualche film con un titolo del genere, perché se non c’è lo brevetto subito! 😉
      Nel tuo caso poi è quasi una conferma della “regola”. Ahahahahah
      Se il lettore di questo commento ravvisi un tono poco accogliente in queste mie righe, chiarisco che tra OnPaoloBBello e me c’è una conoscenza di “penna” di lunga data e il buon Paolo si è spesso dichiarato su queste pagine in “eterno ritardo”. Quindi noi due ci scherziamo su, tranquilli l’Oste anche se è ultimamente “fuori dal giro” mi ha lasciato le chiavi di casa: quindi “mi casa es tu casa”, siempre!
      OnPaoloBBello, veniamo a questa mia ennesima scheggia di napoletano di “cotanta ispirata e colorata facondia”. Miiiiinchia! Ma come ti vengono! Sono io che te le ispiro?!? LOL
      In effetti la tua “ricetta” da strrett-food per la memoria è esattamente quello che sto facendo:
      il palatone è questa webbettola, il companatico questi testi d’italiano e – a questo punto – napoletano crocifisso, conditi con tanta passione e una spruzzata di ironia, q.b.
      Li incarto e li conservo – senza additivi aggiunti – per i miei due nanerottoli.
      Spero tanto – se il buon Server WordPress lo concede (sempre sia lodato. E con il suo Hard-disk. Sempre sia lodato. Ammén) – che un giorno potranno leggermi e avere qualcosa di cui sorridere leggendo del suo papà.
      Vabbuò, ce dammo appuntamento ‘a prossima vota cca’ addo’ stammo mò ‘n coppa o’bloggh ‘e chille c’ ‘o nomme streuso, russ’ russ’….non me vene, ma è ‘na cosa che sciulea…vabbuo’ ce vedimmo add’ ‘O Russe!…
      …oppure quando il Coniglio Bianco ti avviserà che è…tardi, è tardi.
      Io l’orologio l’ho buttato vent’anni fa
      Un abbraccio

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        1. Mi fa piacere che riesco a trasmetterti il mio affetto, siempre.
          Un prezzo in realtà ce l’hanno: il mio tempo oggi, il loro tempo domani e tantataaaaanta pazienza. Leggere, dico “leggere per davvero” sta diventando quasi un “lusso” e ha perso quel valore aspirazionale per la massa. Sono cambiati i tempi e quando non era accedere ai libri per tutti, pochi se lo potevano permettere e qualcuno ne abusava; molti però desideravano leggere. Oggi che la barriera all’entrata è stata abbattuta come il muro di Berlino, sono sempre in pochi che leggono veramente e qualche volta vengono anche derisi.
          Tu ed io, al-di-qua del “muro”.

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          1. Spesso mi trovo a riflettere sulla “nuova” modalità di lettura e sula sua valenza. Io stesso mi sto cimentando sempre più con letture on line, a volte rimpiangendo la “tradizionale” carta, altre no. Per l’accessibilità e la disponibilità di cui dici. Un enorme patrimonio condiviso, ma mischiato al “tutto”, che include anche tanta insignificanza.
            Leggere diventa scegliere. Leggere bene, saper scegliere bene. In questa democratica cacofonia, la tua voce, Red, si fa ascoltare. In italiano e in napoletano.

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              1. Hai perfettamente ragione.
                E sono, siamo seri. È giusto interrogarsi sul proprio (e non solo personale) modo di vivere una cosa importante come la lettura.
                Ieri, passeggiavo sull’Adda e ho trovato un commovente contenitore in legno e sughero (una specie di capanna) per “crossbooking”: metti e prendi libri a prestito gratuitamente. Libri di carta. Caso. In mezzo a un bosco… Fichissimo. Sotto la porticina della capannetta c’era inciso: “Un bambino che legge sarà un adulto che pensa”.
                Ecco. Ecco perché credo sia bene farsi certe domande.

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  4. M’ fatto na fattura int’ a na noce,
    e nun me movo cchiù: stongo attaccato.
    E vaco p’ alluccà, me manca ‘a voce,
    ‘vaco pe’ m’ addurmì, resto scetato.
    È vierno, cade ‘a neve e ‘o core coce;
    è state, scotta ‘o sole e sto gelato!
    M’ fatto, sta fattura doce doce…
    Assassenella, e che m’ è cumbinato!
    M’ fatto na fattura int’ a na mela,
    m’è’ è spurtusato ‘o core c’ ‘a vriala:
    songo arredutto comm’ a na cannela,
    nun tengo ‘a forza de saglì ‘sta scala!
    Nun tengo ‘a forza ‘e fa’ nu passo sulo,
    m’ arruvinato figliulo figliulo…
    E mammema n’ è morta p’ ‘o delore,
    streca malegna, nfama e senza core!

    Ferdinando Russo

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    1. Quanne ‘o core sbatte e ‘a femmena è maliarda.
      Bellissimo questo struggere: la sofferenza è palpabile, fisica, non metà-fisica. La maledizione finale ci sta tutta.
      A’ fattura doce doce è quasi un ossimoro, la dannazione dolce perché viene dalla donna amata anche se l’amore non è corrisposto.
      Si’ gruoss’ OnGianca’ (e naturalmente Ferdinando Russo).

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