Videogiochi, nemico pubblico?


Il nemico è dentro i nostri PC e console...(Little Computer People per Commodore 64 © 1985 David Crane per Activision)
Il nemico è dentro i nostri PC e console…
(Little Computer People per Commodore 64 © 1985 David Crane per Activision)

Grand Theft Auto V è ormai imminente (17 settembre p.v.), il nuovo Call of Duty Ghosts è stato annunciato in pompa magna in occasione della presentazione della console Microsoft di nuova generazione, Xbox One, in arrivo entro la fine dell’anno.

Gli ultimi due episodi delle rispettive serie, calcolando solo le vendite su Playstation 3 e Xbox 360 hanno raggiunto il ragguardevole risultato di oltre 20 milioni di copie ciascuno! Il risultato di Call of Duty Black Ops II è ancora più impressionante data la velocità con cui ha raggiunto tale successo: oltre 11 milioni di copie vendute nella prima settimana e circa 22 milioni dalla data di release cioè, il 13 novembre 2012. Grand Theft Auto IV è stato pubblicato il 29 aprile 2008 e nella prima settimana ha venduto quasi 6 milioni di copie.

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Vendite comparate GTA IV e COD Black Ops II (PS3 e XBOX360).Fonte http://www.vgachartz,com. Dati aggiornati al 28 maggio 2013

I dati di vendita di questi due franchise testimoniano le dimensioni di un successo che richiede considerazione e conferisce dignità pari a quella usualmente tributata a un film, un libro, un album di musica. Ma per i videogiochi non funziona così.

Già prefiguro la consueta ondata censoria e pedante dei media tradizionali (giornali, riviste e TV), che pure di riempire uno spazio in “Costume e società”, si prodigano nel confezionare un’informazione “su misura” per il proprio target adulto, analfabeta in materia di videogaming, tuttavia sensibile agli effetti (negativi) di tale media sulla propria prole. La “produzione” di questa informazione è, nella maggiore parte dei casi, un’operazione che abusa dell’utilissima funzione “copia & incolla” di agenzie ANSA, press release e articoli di altri giornali, senza la decenza di verificarne le fonti, che in questo caso significa “provare il videogioco”. Fulgido esempio di tale “giornalismo” è descritto tra queste pagine: Belzebù con il joypad in mano.

Posso essere comprensivo nei confronti di chi, totalmente a digiuno di videogiochi, ha ricevuto il “compitino” di scrivere un articolo e vi scrive “qualunque cosa” per compiacere il direttore editoriale e il target. Questa persona, umanamente, ha la mia comprensione; il giornalista, no. Censurabile è proprio questo modo di fare informazione e produrre contenuti.

Con questo pregresso di esperienza e un carico pesante di pregiudizi, quando ho notato l’articolo “Videogiochi: una minaccia o una risorsa?” di Valentina Daelli su Oggi Scienza, mi ha aggredito una fastidiosa sensazione di dejà vu.

Come ho avuto modo di commentare, mi sono avvicinato a questo articolo come una gazzella che si avvicina alla riva del fiume sapendo che lì, sotto la superficie dell’acqua, può esserci un coccodrillo pronto a saltarle alla gola. L’odiosa sensazione è però svanita rapidamente. L’articolo fa onore alla testata scientifica: l’autrice affronta il dibattito sulla possibile pericolosità dei videogiochi, raccoglie la legittima apprensione dei genitori per un’attività che occupa una buona parte del tempo dei propri figli, non abbraccia ruffianamente le tesi degli “apocalittici” né banalizza esaltando quelle dei “tecno-entusiasti”, argomenta con dati scientifici, ridimensiona l’allarmismo citando esperienze terapeutiche con il videogaming (e tecnologie associate, come Xbox Kinect), in corso di sperimentazione oggi nel nostro Paese. Il lettore può crearsi un’opinione in merito alla materia in totale autonomia e ha a disposizione numerosi elementi per approfondire.

Particolarmente interessante è la citazione dell’analisi “Videogames in Europe: 2012 Consumer Study”, commissionata dall’ ISFE (Interactive Software Federation of Europe) e realizzata da Ipsos MediaCT, con l’obiettivo di contribuire a una migliore comprensione del contesto sociale in cui i videogiochi vengono fruiti in 16 Paesi europei. La ricerca ha utilizzato una combinazione di sondaggio (on-line) e interviste (off-line) rivolto a un campione di popolazione (circa 15.000 intervistati) tra i 16 e 64 anni, videogiocatori e non videogiocatori, selezionato in base a vari indici demografici. Oltre all’interessante “quadro aggregato europeo”, è disponibile il dettaglio per singolo Paese.

Italia: 76% non interessato ai videogiochi.

“L’analisi specifica per l’Italia” rivela un primo dato significativo: il 76% del campione è poco o per niente interessato ai videogiochi. Le cinque principali ragioni sono: per niente interessato ai videogiochi (62%) ; più interessato ad altri hobby (34%); mancanza di tempo da dedicare ai videogiochi (21%); troppo vecchio per giocare ai videogiochi (15%); nessuna console di videogioco nella propria casa (11%).

Il popolo italiano adulto non è poi così interessato ai videogiochi e manifesta un retaggio culturale che i video-giochi in quanto “giochi” sono “cose per bambini”. Nella società italiana ai videogiochi viene riservato lo stesso trattamento che “nel moderno mondo alfabetizzato” viene riservato alle fiabe, descritto magistralmente da J.R.R. Tolkien nel suo saggio “Sulle Fiabe”, nel volume “Albero e foglia”:

“[…]la connessione istituita tra bambini e fiabe non è che un accidente della nostra storia. Le fiabe, nel moderno mondo alfabetizzato, sono state relegate alla stanza dei bambini, così come mobili sciupati o fuori moda vengono relegati nella stanza dei giochi, soprattutto perché gli adulti non vogliono più vederseli d’attorno e non si preoccupano se vengono maltrattati.”.

I bambini – sostiene Tolkien – non possono essere considerati una singola classe di esseri umani dai gusti simili. Alcuni bambini nascono con un appetito naturale per la meraviglia, mentre altri non ne sono dotati; per i primi questo appetito naturale non diminuisce con l’età, a meno che la società non insegni a reprimerlo o a “sublimarlo”.
Quanto scritto da Tolkien per le fiabe, è attuale e applicabile oggi al videogaming, che è un nuovo modo di raccontare e raccontarsi una storia, utilizzando un medium tecnologico alternativo, concorrente (ma non escludente) a quelli tradizionalmente consolidati e socialmente accettati (libro, TV, cinema…).

I videogiochi stimolano l’aggressività nei bambini: italiani, primi in Europa.

Altro dato: i genitori italiani pensano che i videogiochi contribuiscano all’aggressività nei propri figli in misura drasticamente maggiore (48%) della media europea (27%); di contro, esercitano un controllo teso a limitarne l’utilizzo (parental control) più basso rispetto alla media europea nella fascia d’età tra i 6-9 anni; per le fasce sotto i 5 anni e tra i 10-15 anni, i valori sono più alti rispetto alla media europea e coerenti con tale percezione negativa.

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Se i genitori sono così convinti dell’effetto negativo dei videogiochi sui propri figli, come mai sono poco attenti a sceglierne i contenuti adatti proprio in una fascia critica d’età come quella tra i 6 e i 9 anni?

Tale anomalia ha destato in me un’esigenza di andare più a fondo. Le vecchie avventure della compianta LucasArts (Remembering the life and legend of LucasArts © 2013 Joystiq) hanno dato un contributo in tale senso: mi hanno abituato a esplorare ogni anfratto dello scenario, ogni dettaglio che mi aiutasse a risolvere gli enigmi e giungere al termine della storia. Ed ero un bambino, sono stato un ragazzo e oggi sono un adulto con un grande appetito di conoscere e tanta curiosità.

Continuando nello studio del campione italiano, sempre nella fascia d’età 6-9 anni, emergono due dati la cui correlazione trovo significativa:

1 genitore su 5 ammette di avere poca consapevolezza e conoscenza o di non averne proprio dei giochi che utilizza il proprio figlio (il dato peggiora nella fascia di età 10-15 anni: 2 genitori su 5).

4 bambini su 10 giocano spesso con giochi non adatti alla loro età.

Pertanto, stante un diffuso disinteresse per il videogaming, una larga parte di genitori che obtorto collo entrano in contatto con tale mondo, non hanno consapevolezza di cosa stia utilizzando il proprio figlio e, nonostante siano convinti che procuri effetti negativi, lasciano per giunta che i bimbi fruiscano, senza guida, di contenuti classificati come “non adatti” alla propria età. Per la classificazione dei contenuti si fa riferimento al “PEGI” (Pan European Game Information), che nasce con l’obiettivo di fornire indicazioni ai consumatori (in particolare ai genitori) per aiutarli a decidere se acquistare o meno un particolare prodotto.

In conclusione, il quadro delineato è allarmante in relazione a un cospicuo gruppo sociale paralizzato da paure che non si comprendono e che non si vogliono comprendere, neanche se è in gioco una corretta formazione dei propri figli. L’unica reazione consiste in una resistenza ai cambiamenti indotti dall’utilizzo massivo di nuove tecnologie e al conseguente rifiuto del modo differente di proposta e fruizione dei contenuti, sopratutto da parte dei minori, i cosiddetti “nativi digitali (“Digital Natives, Digital Immigrants “© 2001 Marc Prensky).

Probabilmente non è la via del serious gaming, ben descritto nella seconda parte del citato articolo di Oggi Scienza, che può fare cambiare idea ai più scettici. Il serious gaming può sicuramente migliorare la percezione comune del “videogioco” grazie alle applicazioni nel campo educativo, sociale e sperimentazioni a fini terapeutici, ma, tra i digitali nativi (i figli) e gli immigrati digitali (una parte dei genitori), il termine “videogioco” è e sarà associato a Grand Theft Auto, Call of Duty, Halo, World of Warcraft, Tomb Raider, Resident Evil, Gears of War, FIFA, Gran Turismo, Super Mario, The Legend of Zelda. Il serious gaming è una via per rendere più socialmente accettabile il videogioco come medium, ma non i suoi contenuti. Sarebbe opportuno promuovere il videogioco, cui non può negarsi almeno lo status di opera creativa, come parte di tutti gli elementi, naturali e culturali, tangibili e intangibili, nei quali una società si riconosce e si impegna a trasmettere, in una forma così arricchita, alle future generazioni.

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e dopo tanta violenza digitale, un post ispirato alla mitezza e innocenza…

space-invaders-we-come-in-peace-wallpaperONDA SONORA CONSIGLIATA: The war song (War, war is stupid) in Waking Up With Te House On Fire  © 1984 Culture Club 

 

11 pensieri su “Videogiochi, nemico pubblico?

  1. Non mi sono dimenticato di commentare il tuo articolo. Ho letto attentamente, ed è verissimo che l’uso dei videogiochi, e in generale della tecnologia, viene spesso visto dai genitori come una pratica alienante. In questo senso, penso che la somministrazione ai figli avviene in maniera molto inconsapevole, per una ragione molto semplice: il bimbo è impegnato e ti lascia respirare, e quindi ben venga qualcosa che lo tenga impegnato. Il discorso dei serious games è invece molto interessante, e probabilmente spiegato in maniera corretta alle aziende, potrebbe aprire un mercato di certo sviluppo. Da approfondire.

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    1. Innanzitutto grazie per il commento su un tema a me caro, ma con poche persone interessate e anche disinformate, visto che la stampa fa spesso confusione tra Videogioco e violenza reale, sbatte alla prima occasione anche a sproposito “il mostro in prima pagina’. Di sicuro ritorno sull’argomento “serious game”, ma non lo separerei troppo dal videogame tout court per evitare che faccia la fine dell’ edutainment o, peggio, della “gamification” a spruzzo. Le aziende devono capire che è utile per il loro business. Vedi il recente caso di una persona con una certa disabilità ha ringraziato Blizzard per avere implementato dei comandi configurabili nel recente Overwatch. Voglio dire: gli scivoli sui marciapiedi sono indispensabili per chi si muove con una carrozzella, ma perché c’è ancora gente che gli parcheggia davanti o sparge di escrementi del suo amico Fido il marciapiede ? Così è inutile creare dei serious games quando i “giochi seri” (per milioni di dollari ed euro) si fanno con altro? Con più calma ci ritorno e ti riporto un paio di link, tu aggiungi pure qui che ogni approfondimento è gradito

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    2. Come promesso, con un pò più di calma alcuni link interessanti:
      Mark Griffiths – The educational benefits of videogames: http://sheu.org.uk/sites/sheu.org.uk/files/imagepicker/1/eh203mg.pdf
      Come libro posso consigliarti: La realtà in gioco, l’autrice è Jane McGonigal, l’editore Apogeo. Qui il blog dell’autrice per drti un’idea del suo approccio: https://janemcgonigal.com/play-me/
      Se hai ancora link su questo argomento, bussa che la mia webbwttola è sempre aperta, anche se l’oste ogni tanto si addormenta dietro al bancone.

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        1. Mi hai fatto ritornare la scimmia di parlare nuovamente dei “serious games”;)
          Sto buttando giù un pò di idee e leggendo diverse cose, cerco di tirarne fuori qualcosa di leggibile.
          L’argomento è bistrattato anche dai videogiocatori. Infatti, la mia idea è che il “serious gaming” non vada sviluppato solo come segmento di mercato a parte, ma deve entrare nel videogaming dalla porta principale, cioè implementato nelle produzioni “tripla A” e “indie”.
          A proposito di produzioni “indie” e Sindrome di Asperger, se non ti sei ancora stancato di questa webbettola, butta un occhio qui: To the Moon. Un groppo alla gola per la commozione.. Grazie per la scimmia-figliola-prodiga 😉

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            1. La McGonigal avrai notato sul suo blog è un vulcano! Ma gli articoli sulle nostre testate si contano sulle dita di una mano mozza e le riviste “generaliste” ogni tanto ci infilano un articoletto riciclato per riempire un buco in “Costume e società” o “l’angolo del geek”. In rete sono sopratutto le Università e siti accademici, spesso non gratuiti. È più difficile trovare del materiale in Rete rispetto ad altri temi: questa è una spia di quanto sia considerato.

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