Escono dai fottuti pixel! Alien Trilogy


Alien Trilogy, acquistato insieme alla console PlayStation

Nel febbraio 1996 Alien Trilogy dimostra che il genere degli spara-tutto in prima persona (FPS) è maturo per un passo successivo: se Doom ha inaugurato il genere all’insegna di un’azione frenetica, massacro indiscriminato e armi di potenza devastante, Alien Trilogy vi aggiunge la tensione di un’ambientazione fantascientifica-horror tratta da una famosa serie cinematografica.

In controtendenza con i videogiochi tratti da film (“tie-in”), Alien Trilogy non butta alle ortiche una licenza acquistata sicuramente a caro prezzo: liberamente ispirato al materiale originario della trilogia di Alien, il risultato non delude le aspettative dell’appassionato di Alien.

Un paio di anni dopo, nel 1998, Half-Life rappresenterà l’ennesimo salto evolutivo degli FPS: integrerà nell’interazione anche una storia coinvolgente e degna di essere raccontata. Prima dell’avvento di Half-Life è infatti consuetudine raccontare la trama attraverso una serie di filmati che interrompono il flusso dell’azione.
Dal punto di vista narrativo, Alien Trilogy non si discosta dalla media dei prodotti coevi: la storia è un collante molto blando tra le diverse ambientazioni del gioco, i cosiddetti “livelli”.

Pagina pubblicitaria del catalogo Acclaim incluso nella confezione di Alien Trilogy. La trama viene riassunta in poche righe di testo.

La trama viene raccontata attraverso il testo dei “briefing” all’inizio di ogni missione, che indicano al giocatore gli obiettivi del livello che si sta per affrontare. Si tratta di una storia orientata all’azione, che attinge alle ambientazioni e ai personaggi dell’universo cinematografico di Alien piuttosto che ripercorrere le trame specifiche dei rispettivi film o creare una linea narrativa alternativa.

Il giocatore interpreta il tenente Ellen Ripley, che nei filmati appare con il capo rasato come nel terzo film.

I filmati di intermezzo sono utilizzati sia per raccontare la storia sia per mostrare in tutta la sua brutalità il “game over” ovvero la morte di Ellen Ripley.
La differenza di qualità tra i filmati e la grezza grafica poligonale è motivo di stupore per il giocatore, tuttavia rischia di interromperne l’immersività. Personalmente non ho mai ricevuto questa percezione negativa, anzi attendevo i filmati per essere stupito dal foto-realismo che ancora mancava al videogioco.

La storia non è certamente l’aspetto più riuscito di Alien Trilogy.

Il filmato introduttivo comunica una notizia che ogni videogiocatore attende con la stessa certezza del tuono che segue il fulmine: Ellen Ripley è l’unica sopravvissuta.

Il vecchio adagio “Meglio soli che male accompagnati” non può trovare applicazione nei videogiochi. Se si esclude il recente fenomeno dei “walking simulator“, la solitudine nei videogiochi è spesso sinonimo di estrema noia. Nei videogiochi le “cattive compagnie” abbondano ed è un bene che sia così. Le “cattive compagnie” in Alien Trilogy sono numerose e includono tutto il ciclo vitale delle creature xenomorfe apparse nei tre film: uova, “facehugger” (l’orrido “ragno” che si avvolge sul viso della vittima e vi impianta l’embrione alieno), “chest buster” (che alla fine della gestazione sfonda il torace delle vittime), gli xenomorfi adulti sia nella forma dei “warrior” sia dei “dragon” (detto anche “dog alien” per la loro postura da quadrupede). Vi si aggiungono anche androidi ed esseri umani al servizio della Compagnia. E la Regina? Poiché il gioco è ispirato ai primi tre film, anche le Regine da affrontare sono tre. Quantomeno la coerenza è salva.

Nel filmato introduttivo, Bishop nell’APC assiste impotente allo sterminio dei marine appena giunti nella colonia.

Il gioco inizia essenzialmente allo stesso modo di Aliens: Ripley e i “marine” si dirigono sul pianeta LV-426 per ristabilire il contatto con i coloni. Il tempo di atterrare e i “marine” vengono spazzati via: l’unica sopravvissuta è Ripley, che dovrà attraversare trentacinque livelli distribuiti in tre ambientazioni ispirate ai rispettivi film: la colonia infestata dagli xenomorfi (Aliens), la struttura carceraria (Alien 3) e infine il relitto dell’astronave aliena (Alien).

“Duri, capaci e logori” James Cameron descrive così i marine del futuro

Ripley scans the group as they shuffle past her to a bank of lockers. Though not supermen they are lean and hardened…tough, capable, jaded.  They combine the specialized techno-combat training of the twenty-first century fighting man with those qualities universal to “grunts” through the ages.

(estratto dalla sceneggiatura originale di Aliens)

Durante il gioco, Ripley è più simile al personaggio di Hicks, cioè a un “marine”.

Nel futuro, essere un “marine” non è motivo di onore e gloria, come esaltato nella cinematografia della Seconda guerra mondiale. Nella sceneggiatura originale vengono definiti come “duri, capaci e logori”: il “marine” del ventunesimo secolo è la combinazione di alta specializzazione tecnologica e le qualità universali del soldato semplice temprato attraverso le guerre di tutte le epoche storiche.
James Cameron è ancora troppo ottimista.

Nel videogioco, infatti, l’immagine del “marine” del futuro si avvicina a quella del conflitto in Vietnam: carne da macello, mandata alla cieca in territorio nemico con l’arroganza di un soverchiante volume di fuoco, che però non sempre è garanzia di vittoria o, perfino, di sopravvivenza.

Il “marine” del futuro nei videogiochi tende ad attirare la sfiga al pari di un Ugo Fantozzi di nostrana cinematografia. In Alien Trilogy viene confermata questa tendenza e il giocatore non avrà vita facile per una serie di motivi, già al livello intermedio di difficoltà.

Il primo incontro con uno xenomorfo guerriero. Il fucile a pompa si trova nelle prime stanze

Rispettoso dell’ispirazione, i guerrieri xenomorfi, cioè gli alieni nella loro forma adulta, non sono facili da abbattere nemmeno nel videogioco a causa di una ferale combinazione tra la loro velocità di movimento e la lentezza di movimenti del giocatore. Inoltre, sebbene non si possa ancora parlare di Intelligenza Artificiale, non si avvicinano in linea retta alla bocca dell’arma del giocatore, ma adottano un “pattern” di movimento alquanto schizoide e imprevedibile. Infine, quando si riesce a ucciderli tendono a spruzzare i loro umori acidi intorno e possono procurare danni anche da morti.

L’effetto complessivo è la sensazione di essere “preda”.

Le prede normalmente dispongono di caratteristiche di velocità o mimetizzazione tali da avere qualche probabilità di salvare la pelle, in Alien Trilogy il giocatore si muove con una relativa lentezza e deve affidare la sua sopravvivenza alla mira e alla potenza di fuoco. Rimanere a corto di munizioni – accade con una certa frequenza – dà la sensazione di entrare nella fossa dei leoni a digiuno da una settimana, cosparsi di un profumo all’essenza di braciola affumicata e armati di una pistola-giocattolo armata di proiettili a ventosa.

Procurarsi il fucile a pompa (letale a corto raggio) e il fucile a impulsi (eccellente per la lunga distanza) è essenziale per la sopravvivenza.

Il migliore amico dell’uomo del futuro non è il cane: è il fucile a impulsi M41A!

Il migliore amico del giocatore è il fucile a impulsi M41A.

Grazie all’elevata capacità dei caricatori e alla lunga gittata, una volta trovata quest’arma, il gioco cambia drasticamente. Le munizioni delle armi di potenza più devastante, come il mitragliatore pesante USCM M56, le granate o le cariche sismiche, sono infatti davvero scarse e pertanto è consigliabile utilizzarle solo per sfoltire il numero degli xenomorfi quando sono in gruppo o negli spazi più aperti. Per gli amanti della grigliata aliena non manca nemmeno il lancia-fiamme, ma consuma carburante come un’automobile sportiva di grande cilindrata.

Remember…short, controlled bursts
cit. Hicks in Aliens

Come Hicks suggerisce in Aliens, raffiche brevi e mirate del fucile a impulsi sono le più efficaci per eliminare alla distanza gli xenomorfi più coriacei e pericolosi. Perfino contro la Regina quest’arma è un efficace strumento per donarle la pace eterna.

Disporre di un volume di fuoco adeguato non è sufficiente per la sopravvivenza, ancora più cruciale è la raccolta delle risorse patologicamente scarse in questo genere di videogiochi: le munizioni e i kit medici.

L’elemento più riuscito di Alien Trilogy è l’atmosfera.

Le mie esperienze video-ludiche mi hanno insegnato che un videogioco può ricreare con successo i cosiddetti “salti sulla sedia”, tuttavia ciò non è sufficiente per trasmettere lo stato di costante tensione, magistralmente reso nella trilogia cinematografica di Alien. La scelta della visuale in prima persona si adatta perfettamente allo scopo: la sensazione di essere inseguito e cacciato da un implacabile predatore del film viene riprodotta con efficacia.

Alien Trilogy vi aggiunge un plus che il cinema non può trasmettere ed è peculiare del videogioco: l’opprimente sensazione di minaccia è diretta, non a un terzo personaggio sullo schermo, ma a chi stringe il joypad tra le mani e controlla le sue azioni nello scenario di gioco. Alien Trilogy vi riesce con successo grazie alla combinazione all’attenzione ai dettagli cari all’appassionato dei film e alla visuale in prima persona, che fino ad allora – almeno per i videogiochi per console – non è così comune.

L’atmosfera è coerente ai film ai quali si ispira ed efficace ai fini dell’interazione grazie un limite molto comune nei videogiochi degli anni Novanta. La grafica poligonale più complessa (e più verosimile) richiede infatti una potenza di calcolo di hardware dalle alte prestazioni e dal prezzo elevato. Su hardware dalle prestazioni più modeste, per disegnare gli scenari sulle lunghe distanze si utilizza un algoritmo che esclude i poligoni lontani (detto “clipping”, che in inglese significa “tagliare”). L’effetto può però avere un impatto negativo sulla qualità complessiva della grafica.
Grazie anche alla tipica ambientazione claustrofobica dei film, costituita da un dedalo di stanze e corridoi, il motore grafico di Alien Trilogy disegna poligoni a una distanza limitata, conservando una sufficiente profondità di campo, che non va a detrimento del realismo, anzi lo esalta.

Immaginate di camminare lungo un corridoio la cui fine non si distingue, d’improvviso scorgete uno sfarfallio a terra, qualcosa in movimento. Vi fermate per osservare meglio: scorgete su un lato alcuni barili e casse ammassate, nessun movimento, forse è stata solo un’impressione, una suggestione tipica di un luogo così desolato. Riprendete a camminare dirigendovi verso le casse: potrebbe esserci qualcosa di utile come un caricatore di proiettili o un kit medico. Dimentichi del movimento sospetto di pochi istanti prima, vi avvicinate alle casse, inconsapevolmente con la “guardia abbassata”.
Di nuovo quel movimento a terra: è un facehugger! Ve ne accorgete un istante prima del suo balzo.

Alien Trilogy per PlayStation: Facehugger! Escono dalle fottute pareti!

È troppo tardi: la sua bocca e i suoi tentacoli occupano già tutto lo schermo.

Vi assicuro che faceva parecchio ribrezzo!
Quella specie di marmellata di pixel con una trama Principe di Galles intessuta da un sarto sotto effetto di anfetamine andate a male è il facehugger che si è piantato sulla vostra faccia.  Scena raccapricciante nel film nel 1979, altrettanto nel videogioco nel 1996.

Oggi l’effetto grafico può fare sorridere, ma garantisco che quei “cosi” saltellanti da tutte le parti mi hanno messo ansia quanto, se non più, del film.

Nel gioco, l’attacco del facehugger riduce di una piccola porzione la “barra della  vita” (sempre visibile nell’angolo alto a sinistra dello schermo); poiché agiscono in gruppi numerosi anche questo “piccoletto” può rappresentare una seria minaccia perché affrontare già malconci un guerriero xenomorfo – per dirla alla Gianluca Grignani – è un viaggio a senso solo senza ritorno per Paradiso Città.

La grafica miscela elementi 3D e 2D come Doom: le ambientazioni in 3D rivestite di texture, gli oggetti e i nemici in 2D. L’effetto oggi fa sorridere poiché in un incontro ravvicinato il terrificante guerriero xenomorfo appare come una sagoma di cartone. La grafica non fa gridare al miracolo, ma è nel complesso convincente: le ambientazioni e gli avversari sono riprodotti con una certa varietà e i fan di Alien ne riconosceranno l’universo per una serie di dettagli e citazioni sparse per i livelli.

Un significativo contributo all’atmosfera è dato dagli effetti sonori e dalla musica: opprimente e palpabile è la sensazione di minaccia mentre si percorrono i lunghi corridoi. Fermarsi per controllare l’ambiente circostante diventa una sana abitudine.

La presenza dell’iconico rilevatore di movimento è rassicurante, ma niente è più appagante quanto liberatorio del crepitio del fucile a impulsi. Altri effetti speciali come fumo, esplosioni e l’interazione con parti dell’ambiente sono dettagli che fanno la differenza con un clone di Doom o di un FPS senza alcuna identità.

Per quanto votato all’azione, Alien Trilogy riesce con successo a trasmettere uno degli elementi essenziali dei film: la sensazione che ogni passo sia l’ultimo.

Alien Trilogy è tecnicamente un passo indietro rispetto al gioco Alien vs Predator per Atari Jaguar, tuttavia – a causa della sua scarsa diffusione – può essere considerato il primo esempio di videogioco ispirato alla saga di Alien che riesce coglierne alcuni essenziali elementi e ha cura dei dettagli importanti per l’appassionato.

Con tutti i limiti di grafica e interazione che oggi sono evidenti, Alien Trilogy è l’inizio di una “narrativa in fieri” al cui centro vi è il giocatore che si muove sullo sfondo di questo nuovo  e differente universo fantascientifico: un risultto non banale per un videogioco del 1996.

Pubblicità presente nella confezione di Alien Trilogy: il migliore modo di giocarlo è con un TV CRT. Anche oggi è la scelta migliore. L’effetto sui LED ne mortifica ancora di più l’arretrato aspetto grafico.
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26 pensieri su “Escono dai fottuti pixel! Alien Trilogy

  1. Splendida recensione: ti va se ri-posto anche questa nel mio blog alieno? ^_^
    Nel ’95 circa riuscii a trovare una total conversion di Aliens per Doom, svenendo dal piacere: dei fan geniali, dei veri artisti, avevano modificato così perfettamente Doom (o Doom 2, non ricordo), da ricreare in pratica “Alien Trilogy” un anno prima, o forse più. Tutto ciò che descrivi era già lì, con tanto di audio preso da film, armi modificate, mostri di Doom trasformati nelle varie forme degli xenomorfi, texture che ricreavano perfettamente quelle dei primi due film e via dicendo. Un’esperienza mistica! Non potrò mai ringraziare abbastanza quegli appassionati che mi permisero di entrare in una stanza, armato di pulse rifle, e sparare a secchiate di alieni che uscivano dalle fottute pareti!

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    1. Questa recensione è “colpa” tua, te l’avevo promessa un bel po’ di tempo fa 😜. Mi sento onorato se la pubblichi nel blog alieno.
      Ero a conoscenza della “total conversion” ma non disponendo di un PC, la PlayStation fu la prima piattaforma sulla quale sperimentare gli FPS. Ho acquistato la console insieme ad Alien Trilogy e Ridge Racer Revolution, quindi puoi immaginare che questo gioco ha anche un valore “affettivo”.

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    1. Hai efficacemente sintetizzato il pistolotto di presentazione di questa nuova rubrichetta all’epoca della sua apparizione su queste pagine.
      Dalle origini il videogiocatore ha la tendenza a infilarsi in rovi di rogne. La classica “ciliegina” per tanto masochismo è giunta quando i videogiochi, sia per grafica sia per interazione, hanno iniziato a creare situazioni ansiogene con esiti che può richiedere, nella migliore delle ipotesi, il cambio della biancheria intima, nella peggiore, l’intervento dell’ UTIC (Unità di Terapia Intensiva Cardiologica).
      Terrore, paura, angoscia, impotenza, rassegnazione sono un’esca perfetta alla quale la maggiore parte dei videogiocatori abbocca sempre.

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  2. Pingback: [1996-02] Alien Trilogy | 30 anni di ALIENS

    1. Alien Convenant? Avrei dovuto fare di tutto per dimenticare di averlo visto e invece ne ho scritto due post:
      il primo è una considerazione sugli elementi tecnici dell’edizione Blu-ray che ho acquistato
      – il secondo…beh il titolo parla da solo:
      Alien Covenant, Ridley Scott nello Spazio ti vorrei lanciare

      Mi hai spinto ad andare a rileggerlo: oggi scriverei esattamente le stesse parole che rendono nella sua vividezza la Scott-ante delusione.
      Se hai tempo e voglia, rimando al secondo post per tutti i dettagli.

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      1. In effetti anch’io l’ho trovato meno riuscito rispetto ad altri titoli Scottiani (uno su tutti lo splendido The Counselor). Magari andrà meglio con il prossimo film sui Gucci: Scott accarezza questo progetto da oltre 10 anni, quindi credo proprio che ci metterà tutto l’impegno possibile. Grazie per la risposta! 🙂

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        1. “meno riuscito rispetto ad altri titoli Scottiani” è un eufemismo educato.
          Per tanti motivi descritti – alcuni davvero ingiustificabili per un regista di tanta esperienza e fama – Covenant è un fallimento, ancora più deludente perché perpetrato dal regista che gli ha dato i natali e che se n’è infischiato della “community” e dell’universo sviluppatosi intorno nel corso di tanti anni.
          Come il ricco e megalomane Weyland ha giocato a fare “Dio”…

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          1. A proposito di Weyland, è un peccato vedere coinvolto in un film del genere un attorone come Guy Pearce, che in precedenza aveva fatto tanti film da sogno (L.A. Confidential e Lawless su tutti). Mi rifiuto di credere che un attore con la sua esperienza non si fosse accorto già dalla prima occhiata alla sceneggiatura che il film sarebbe venuto fuori una merda fumante. Ma probabilmente l’idea di poter raccontare ai nipoti di aver lavorato con Ridley Scott l’ha portato ad accettare comunque la parte. Immagino che per lo stesso motivo (ovvero il blasone di un regista caduto in disgrazia) abbia accettato di comparire in quell’altra cagata formato maxi chiamata Domino. Buona Domenica! 🙂

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            1. Sicuramente il blasone di regista e saga hanno coinvolto attori e autori di spicco. Senza contare che pecunia non olet visto l’alto budget del film. Investire tanto soldi e risorse in un progetto che già sula carta manda in malora tutto l’universo di una saga e l’immaginario collettivo fino a quel momento è uno spreco imperdonabile. Buona domenica anche a te.

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  3. I “livelli”, che noi anziani continuiamo a chiamare “quadri” 😅😭
    35 livelli sono tata roba. Oggi corrispondono a 200 ore di gioco…
    Mi sembra di capire che avesse il difetto di questo genere, ovvero l’usare la solita arma nonostante le varietà a disposizione.
    Mi piace l’analogia che ne fai coi marines del Vietnam.
    Lo vendi bene ma sono certo che fosse matrice di bestemmie 😝

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    1. Ciao Ema! All’epoca lo terminai e – a memoria – non ricordo fosse una fabbrica di bestemmie. C’era molto di peggio su SNES e MD. A livello intermedio la sfida era coerente con la tensione del film. Rigiocandone qualche livello per rinfrescare la memoria in occasione di questa “recensione”, oggi la difficoltà maggiore è abituarsi al movimento con la croce direzionale. Gicato sul PC con mouse e tastiera agevola di molto l’esperienza.

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  4. Pingback: Escono dai fottuti pixel! Aliens Colonial Marines (guest post) | 30 anni di ALIENS

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