Che mangino brioche!


“Non sono una senza tetto, ma i miei figli lo saranno”. Occupy Wall Street, Zuccotti Park, New York (c) Steven Greenstreet

La sprezzante espressione “Che mangino brioche!” attribuita a quella sicuramente non santa, ma certamente decollata Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, suona di attualità a distanza di oltre 250 anni all’ascolto di una notizia a Radio24: un titolare di un lussuoso bar al centro di Napoli ha richiamato l’attenzione dei media poiché nessuno dei quaranta selezionati al primo colloquio ha accettato la sua proposta per uno dei dieci posti di lavoro, eppure dal 2000 il Mezzogiorno d’Italia è cresciuto la metà della Grecia.

Le condizioni sono: minimo contrattuale, intorno agli 800 euro. Turni che non superano le nove ore. Due mesi di prova , poi si passa a tempo indeterminato.

Se non vi scatta subito “la bestia” dentro, allora continuate a leggere perchè non contenti di avere preparato alle giovani generazioni un non-futuro di precarietà, il passaggio successivo è quello di essere anche felici e riconoscenti. Il terzo di stare in silenzio. Il quarto: ius primae noctis? No, non ci si arriverà: oggi è difficile e lo si fa almeno dieci anni più tardi dei nostri genitori, in futuro non sarà possibile farsi una famiglia.

Messa così in rapida nonché asciutta successione, la società immaginata da Orwell in “1984” non sarebbe poi così male.

La storia in breve è questa: un giovane imprenditore napoletano di 24 anni, che ha ereditato un marchio di abbigliamento e una decina di negozi, ha offerto 10 posti di lavoro in un bar di sua proprietà, situato al centro di una città come Napoli, che tra i primati ha anche quello del tasso di disoccupazione. Quaranta i selezionati tra i cento curricula ricevuti, ma nessuno accetta le condizioni proposte. L’imprenditore appare sgomento a cotanto rifiuto di massa e ne denuncia l'”incredibile” accaduto rilasciando un’intervista all’ormai defunto quotidiano partenopeo, perché di quel giornale, ultima voce autentica e indipendente del Meridione, è rimasto solo il titolo “Il Mattino”. L’ articolo del giornale è travestito da “intervista”, ma il giornalista non riesce a celare sudditanza e accondiscendenza, un rinomato vizio della stampa italiana di schierarsi con il più forte: suona come una combine, di quelle in uso nello sport con partite decise a tavolino e risultati truccati.

L’associazione, così come i commenti e le opinioni epresse sul web e alla radio, viene su facile: gioventù viziata;  meridionali scansafatiche; una guerra tra sempre più ricchi e sempre più poveri; una guerra tra poveri, che lottano con dignità, e poveri, che l’hanno sepolta per svariati motivi, necessità o becero calcolo;  infine, la guerra tra padani e terroni, che fa impallidire per fantasia e durata quella per la Terra di Mezzo e l’Unico Anello.

La realtà è che i giornali – in questo periodo, più che nel resto dell’anno – sono a corto di notizie nonché personale e l’imprenditore vuole farsi un pò di pubblicità gratuita su un giornale nazionale. Il “colpo” gli riesce benissimo e viene amplificato grazie all’Internétt e ai social network: il nome del suo bar viene rimbalzato dall’Alpi all’Aspromonte, dalla sponda del Tirreno a quella dell’Adriatico. Il giorno dopo la sua pubblicazione, la pagina web in cui viene pubblicato parte dell’articolo conta su FaceBook più di 9.000 condivisioni e oltre 740.000 “Mi piace”. L’articolo è talmente superfluo e scontato che riscuote tanta partecipazione nonostante non lo si possa leggere integralmente. Non serve leggerlo tutto per farsi un’opinione. Basta leggere la prima parte, la seconda la devi pagare: 1 euro a settimana per abbonarti all’edizione digitale…Per leggere questo tipo di articoli e questo sfoggio di “critica”? Buona pubblicità per l’imprenditore, pessima per il quotidiano.

La frase erroneamente attribuita a Maria Antonietta “Che mangino brioche!” è la sintesi, ancora attuale, nonostante varie teste rotolate, rivoluzioni, guerre, lotte per i diritti, la Costituizione, lo Statuto dei Lavoratori e il suo articolo 18, strumento di distrAzione di masse, che sembrava valere Parigi ma poi l’hanno seppellito senza neanche dire una messa. Oggi abbiamo il “Jobs Act”, che – proprio per non fare capire niente dall’inizio –  l’hanno onestamente chiamato in una lingua da decenni introdotta nella scuola dell’obbligo e che, tuttavia, non riusciamo proprio a imparare. Oggi, la proposta dell’ennesimo “furbetto d’er quartierino” è normalità. Se rifiuti, sei uno che non vuole lavorare, non vuole sacrificarsi, un ingrato che non accetti la “ghiotta opportunità”.

Senza  rivolgersi a giornali e giornalisti, intermediari che non fanno più il loro lavoro, per informarsi dei fatti è sufficiente navigare su Internet, partendo da una ricerca basata su questa stringa, senza usare le virgolette, “barista Napoli 4 euro all’ora” e avere la pazienza e la curiosità di seguire i link, leggere e saltare da una pagina a un’altra. Dopo un’ora a leggere articoli, commenti le varie esperienze vi accorgerete che la paga oraria giornaliera tra i 4-5 euro rientra nella normalità e, per lo più, nella legalità: si spazia dai call center ai parchi giochi, cooperative e anche l’EXPO.

A volere vedere bene, qui non si tratta di essere “spocchiosi” nei confronti di un lavoro: all’inizio può comportare qualche sacrificio extra, ma occorre avere “prospettiva”, almeno la possibilità di immaginarsi non genericamente un “futuro”, ma un futuro-migliore, parola “non spendbile separatamente”. Nove ore giornaliere, un lavoro stancante, sempre in piedi, retribuzione che non ti permette di avere una tua indipendenza, ma devi accettare una convivenza forzosa con i tuoi genitori o amici o con degli sconosciuti. Condizione che, per la maggiore parte, non è temporanea ma si prolunga fino a un’ età in cui i nostri genitori esercitavano le rispettive potestà da almeno dieci anni, rinunciavano sì alle vacanze, non andavano spesso al cinema e al ristorante,”charter”, “fitness” e “wellness” erano termini sconosciuti anche agli anglo-sassoni, ma mettevano da parte abbastanza per comprare una casa, l’automobile e assicurare ai propri figli gli studi universitari e di specializzazone, così che non dovessero ripetere i loro sacrifici.

Prima di sparare sentenze sui “bamboccioni” (che pure sono presenti in questa società di adulti “magnaccionI”), pensate che a quel colloquio tra i candidati saranno – se non cambia qualcosa, è una certezza –  i vostri figli. E quella proposta è cosa normale, anzi se non accetti, sei socialmente esecrabile.

A parte l’episodio, che non è attinente al “lavoro” in quanto “pubblicità ingannevole”, l’aspetto più preoccupante è che la precarietà non è più un tatticismo temporaneo perché “adda passà a’ nuttata”, non è un espediente temporaneo cui ricorrere per incapacità cronica del sistema politico e sociale di gestire le inefficienze del capitalismo, ma è uno strumento, un vero e proprio “utensile” per modificare l’opinione pubblica, il comune sentire.

Via via, si sta estendendo questo metodo di fare passare per “normale” ciò che non lo è anche tra i lavoratori con maggiori “garanzie”, uso questa espressione crescente nell’utilizzo e decrescente nel significato di tutela. Quali “garanzie”? Il contratto individuale di lavoro deve essere: a titolo oneroso, sinallagmatico, commutativo ed eterodeterminato, segue cioè un insieme di regole convenute, scritte e sottoscritte. Nessuno desidera delle “garanzie” a titolo gratuito o per “gentile concessione”. Solo delle condizioni per lavorare al meglio. Diritti e doveri.

Si parla di “dare fiducia ai giovani” e si sente il controcanto che “i giovani rifiutano i sacrifici”, c’è un terzo che gode.

Una retribuzione modesta può essere un punto di partenza per qualcuno che non ha nulla, che si trova in un momento di difficoltà, ma non può essere LA “normalità”. L’ancora di salvezza si trasforma in ferraglia che ti porta a fondo, sempre più a fondo.

Il lavoro è importatissimo: se viene meno la dignità che dona a ogni uomo e donna, se viene meno l’idea di un futuro che (av)verrà, rimane solo la fatica di vivere.

Occupy Wall Street, 5th Avenue, New York, 11 ottobre 2011 (c) Spencer Platt/Getty Images/AFP

Avviso ai naviganti: chi avesse l’idea di commentare la descritta “trovata pubblicitaria” dell’imprenditore napoletano con un “bravo”, sappia che copierò il suo indirizzo di posta elettronica e verrà incollato in un modulo di sottoscrizione di una qualsiasi news o servizio dei siti “canaglia” dallo spamming selvaggio. La “bravura” si riserva per più nobili cause e azioni. Questa furbizia non è “bravura”. Sono un estremista, su certe parole, in certe circostanze sono “radicale”. Con le parole posso tirarvela alla lunga, fargli fare diversi giri e infilarvi due-tre significati, ma su certe cose sono asciutto come un bimbo che sta imparando a parlare.drago ribelle

8 pensieri su “Che mangino brioche!

  1. ho lavorato anche per 3 euro all’ora in un call center, orari assurdi, compagnie terribili .. in nome di una edulcorata libertà che diventa solo rassegnazione, sarei stata capace di continuare in prospettiva di un avanzamento… ma potrai immaginare..

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    1. Mi viene da citare il motto di questa webbettola.Johann Wolfgang von Goethe disse:”Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo”. Il “giocherello” di certi centri di potere e concentrazioni di denaro è proprio in senso opposto: farti sentire libero, mentre in realtà sei schiavo. Come il cane tenuto legato alla cuccia con un guinzaglio lungo, ma della lunghezza decisa dal padrone. Vede un estraneo, scatta su tutte le quattro zampe e gli corre incontro…L’estraneo si paralizza, rimane immobile sul posto, il cane gli è quasi addosso, quando il guinzaglio termina la sua corsa…si tende e, come il colpo di frusta che resta un attimo in aria e poi ritorna da dove è venuto, strattona il cane indietro e lo trascina alla cuccia, quasi strozzandolo. Il cane si riprende e guarda l’estraneo: sta sorridendo…E ora lo riconosce! E’ il suo padrone.
      I lavoratori sono il cane. Ai giovani hanno iniziato ad accorciare anche il guinzaglio.

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  2. Zeus

    Ormai, con la flessibilità, ti fanno fare di tutto. Se non sei flessibile, puoi startene a casa. Se non sei flessibile, troviamo qualcuno che lo è. Se non sei flessibile, non hai voglia di fare niente.

    Gli unici inflessibili, però, sono proprio quelli che la flessibilità la richiedono… e guai a dire: ma scusate, un po’ di flessibilità anche voi?

    Al posto che darmi quattro soldi e una non-sopravvivenza, mi potete dare qualcosa di più? Il lavoro lo voglio.

    Risposta?

    Bruciatelo. Bruciatelo.
    Sitana Sitana Satana!!!
    Eretico.

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    1. E’ proprio così! Chi ha invocato la necessità della flessibilità (che poi è stata trasformata in precarietà), è chi ha la sicurezza della “poltrona” e chi “flessibile” non è mai stato e non ha intenzione di esserlo. Si è sovvertito il concetto di contratto di lavoro, di negozio giuridico nel suo cosiddetto sinallagma ovvero reciprocità. Hanno cambiato strategia nel contenere la protesta, etichettandola come “irresponsabilità”, “incapacità di fare sacrifici”, “mancanza di voglia di lavorare”. Qui c’è un disperato bisogno di lavorare, di avere gli strumenti per farsi una famiglia, di guardare alla propria realizzazione professionale…Dichenmminchia parlano?!? In tutta la precarietà che hanno introdotto nel sistema non hanno migliorato la situazione occupazionale e chi lavora a queste condizioni non può dirsi certo una risorsa – per dirla con una parola asettica – motivata. Hanno introdotto una discriminazione tra lavoratori che hanno le stesse mansioni o assimilabili. Se tutto ciò avesse risolto, potremmo dire che il sacrificio vale la proverbiale candela, ma non ci siamo proprio, non ci siamo.

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      1. Zeus

        Esattamente redbavon. Esattamente. Si è perso qualcosa nel contratto fra le due parti, in cui una gioca sempre e comunque da un punto di forza e l’altra, se solleva un dubbio sullo sfruttamento legalizzato, oltre ad essere dalla parte della lama del coltello, viene additato come “scansafatiche”.
        C’è anche del vero, ovvio, ma quello c’era prima e ci sarà sempre… il problema è che viene resa ridicola la posizione di tutti. E questo è un male e un gatto che si morde la coda… perché nutre sfiducia in quello che da lavoro, che cavalcherà la storia del “precario/flessibile” e che riverserà tutto sul lavoratore che si tirerà indietro… e via dicendo.

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