So(g)no felice


filo

Sono a casa. Sono finalmente a casa!

Devo avere fatto un lungo, lunghissimo viaggio o manco da così tanto tempo che il solo rivedere casa di mamma e papà mi gonfia di emozione. Sto quasi sul punto di piangere. Che bello essere ritornato a casa!

Vivo ormai lontano da tanti anni, ho un’altra casa in un’altra città da quasi due decenni, ho una famiglia, ho vissuto più in quest’ultima città che nella mia di origine, ma questa è la mia città, questo è dove mi sento veramente “a casa”. Quando vado a trovare i miei cari genitori, mi sento proprio così.

Sono a casa. Ma stamattina mi sono alzato con un magone: devo andare via.

Appena arrivato, devo subito andare via. Posso restare poco. Così poco tempo che ci sto male. Una sensazione, che chiunque sia emigrato in un’altra città per lavoro, conosce bene. Una sensazione che ritorna con enorme forza centripeta nel momento in cui devi andare via, una sensazione che non ti molla neanche quando il treno sferraglia lasciandosi alle spalle la stazione. Un filo invisibile che ti tira indietro.

Sulla mia pelle, ho un grande rispetto per i migranti che scappano da guerre e altre situazioni senza speranze: quando partono, sono consapevoli che il ritorno a casa sarà difficile, se non impossibile. Io posso tornare. Un filo invisibile che ti tira indietro, sempre.

Stranamente, mia mamma non mi ha subissato a ripetizione di “resta e rimani”, ha capito la mia sofferenza nel doverli abbandonare presto e la sua insistenza avrebbe reso ancora più difficile la partenza. Mamma mi ha solo guardato, le basta uno sguardo per capire al volo tutta la situazione. Mi ha rivolto solo uno sguardo con un’espressione dispiaciuta e immensamente comprensiva, come solo una madre è capace di essere:”ma devi già andare via?”.

Entro in cucina, diamine quanto sono rintronato! Vedo quasi sfocato, ma escludo che la notte, oltre a portare consiglio, porti la miopia fulminante.
Appena sveglio alla mattina, la cucina a casa mia è un luogo magico. Odori di sughi che bollono già da ore, lo stomaco si apre più di quanto lo siano gli occhi cisposi; mia mamma è sempre indaffarata, un cincischiare tra stoviglie, cibi, rumori di utensili da cucina, ma non manca mai di prepararmi la macchinetta del caffè.

Non devo fare nemmeno la fatica di accendere il fuoco sotto. Quando sente i miei passi, resi pesanti e strascicati da una parte consistente di me strappata al letto, ma ancora nel sonno, accende il fuoco sotto la macchinetta e quando arrivo in cucina, l’aroma del caffè già si espande e si confonde con gli altri odori. Il caffè è quasi pronto.

Stranamente, entrando in cucina non sento alcun odore o aroma. Non gli dò tanta importanza, però, sono di passaggio rapido, rapidissimo, ho i minuti contati, devo andare via. Non c’è stato il tempo di mettere su la macchinetta, mamma è indaffarata con le cose di casa e anche il caffè allungherebbe i tempi del mio distacco. Non ci faccio caso, non è il caffè che cerco. Cerco con lo sguardo qualcun altro.
E’ lì, sul lato opposto dell’entrata della cucina. Di spalle, sta guardando fuori dalla finestra.
Mi avvicino e copro la breve distanza come se avessi levitato. Non ho quasi sentito i miei passi. Ma l’uomo sulla settantina di spalle, li ha sentiti. Si gira e mi sorride.

“Papà…?…?” gli faccio quasi interrogativo, quasi non me lo aspettassi lì in piedi in quella posizione a guardare fuori il nulla. E’ mattino molto presto, al massimo passa veloce qualche automobile e il resto della città è avvolto nel silenzio, rotto ogni tanto dal suono distante di una sirena dal porto o un put-put di motore di una motonave che prende il largo o di un peschereccio che ritorna. “Papà!”. Dentro, questa parola mi riempie e satura ogni altro spazio, fosse anche interstiziale, del mio corpo. Una parola che fonde corpo e anima.

Papà, senza proferire parola, accenna a qualcosa che ho fatto il giorno prima e che è attaccato a una specie di bacheca, affissa sulla parete opposta alla finestra. Incontro il suo sguardo, ne seguo poi la direzione come un cane segue innamorato il suo “padrone”. Se avessi avuto la coda, starei scodinzolando felice. Come foglie cadenti d’autunno, alla parete sono attaccati diversi fogli e foglietti, ma in un equilibrio molto precario, tale che basta passarvi vicino e lo spostamento d’aria ne fa cadere a terra qualcuno: papà me ne indica uno, uno particolarmente colorato. Ritorno sui miei passi, vado verso la parete, stranamente lo spostamento d’aria non produce quella “naturale” caduta di fogli…Forse sto levitando veramente. Afferro il foglietto dolcemente, senza staccarlo: è uno schema, anzi no, è un elenco, una classifica con una serie di titoli.
Papà aggiunge qualcosa, gira la testa leggermente sulla sinistra, il suo sguardo taglia la cucina e punta sul lato opposto, verso il basso: segue la scia di uno dei miei figli, un bimbetto di quasi cinque anni, che sgambetta per la cucina, apparso come un munaciello tra papà, mamma e il tavolo. Lo vedo ora anche io: fa lo slalom tra due sedie con la determinazione mista all’incertezza dei discesisti di questa disciplina: “so sciare (camminare), ma potrei cadere lo stesso”. Sembra quasi levitare, anche lui…Ed esce dalla stanza. Anche mamma in quel momento mi sta fissando. Leggo la sua espressione in viso e capisco: è il momento dei saluti, devo andare via.
Quanto odio questo esatto momento. Sì, lo odio veramente.

Incrocio lo sguardo di mamma per l’ultima volta e sembra farmi “corri da papà”. Ma io già sto lì, alle sue spalle. Questa volta non sono levitato, mi devo essere proprio tele-trasportato.
Abbraccio papà cingendogli le spalle.

Lo abbraccio e affondo il mio naso, la testa tutta nel suo collo, nello spazio tra collo e spalla, nudi. Affondo per portarmi via un po’ del suo odore. Per sentirlo prima di andarmene e tornare chissà quando. Lo so, la sto mettendo sul melodrammatico: i treni ci sono a tutte le ore e Napoli non è poi così lontana. L’automobile ce l’ho e posso venire quando voglio. Persino l’aereo, volendo. Eppure, ho un peso, il magone è ormai quasi asfissiante, il ritorno a casa è stato un’emozione fortissima e l’imminente distacco mi devasta. E mai parola è più precisa perché avverto solo una cosa dentro: la “devastazione”.

Il mio abbraccio continua, disperato quasi, cerco l’odore, sento il contatto con le spalle, la pelle un po’ grinzosa, mi pare quasi di avere trovato quell’essenza in un angolino di una piega, quando papà – finora di spalle – si volta verso di me. Mi fa un sorriso, io non mollo la presa, lo abbraccio abbarbicato come un naufrago al relitto nella tempesta, mi sembra di affondare, sprofondare in un abisso. Sento che la mia presa si fa più forte, affondo le dita nella pelle, non mollo, non ti mollo, non voglio andare via. No! Non voglio.

Papà mi sorride e mi parla:“io sto bene qui”…pausa…“stai sereno”. Mi sorride nuovamente, l’“ora vai” mentre indica la direzione in cui mio figlio è uscito dalla cucina, l’ho sentito, l’ho visto, non so, so solo che non ricordo le sue labbra muoversi nel pronunciare la frase, perché si è voltato di nuovo verso la finestra, io sempre abbracciato, ma con la presa che sento sempre più cedevole. Un filo invisibile che ti tira indietro.

A quel punto quel magone che sentivo dall’inizio è esploso. Non c’è stato verso di trattenerlo. Ma non avevo nessuna intenzione di oppormi. La mia razionalità, ogni altra emozione, sensazione, pensiero sono stati spazzati via da un’onda di tsunami che ha devastato qualsiasi cosa nel raggio di anni del passato e del presente, lasciando del futuro una sinapsi: una sola, flebile sinapsi, che mi ha salvato dall’inevitabile soffocamento.
Ho deglutito, recuperato il respiro….

…Ho aperto gli occhi.
Bagnati di una lacrima.

Ho sognato, papà.

Sbando, sento ancora il nodo in gola, respiro deglutendo ogni tanto.
Scoppio in un pianto e inizio a scrivere perché è l’unico modo per raccontarlo senza che le parole spariscano nella mia gola, come gocce di rugiada al sole del mattino, e riaffiorino negli occhi come lacrime.

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10 pensieri su “So(g)no felice

  1. come l’ultima volta che hai stretto la mano di qualcuno e poi non l’hai fatto più e non vi siete lasciati con niente, all’ultima volta che sentivi l’odore del caffè a casa di mamma e non sapevi fosse l’ultima, l’ultima volta che hai percorso una strada e poi è finita che te la sei sognata di notte, all’ultima volta che hai usato un’espressione in particolare che ha smesso all’improvviso di appartenerti, come quando smetti di provare interesse per qualcosa o per qualcuno e non sai perché e non sai neanche quand’è stata l’ultima volta..
    Come l’ultimo abbraccio dato senza troppa forza, l’ultima carezza, respirando forte l’odore per trattenerlo nel momento del bisogno, della mancanza,la parola mancata che ora vorresti tanto urlare e si tramuta in un dolore intenso lì alla base del collo prima di esplodere in un pianto disperato.

    Per me bee gees fa tanto mio papà. …

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    1. Grazie tiZ! Grazie per avere condiviso, per davvero. Vedi il filo? Riesco a vederlo meno sfocato, più nitido. Ci lega tutti, sempre che ci sforziamo di scorgerlo e non ci giriamo dall’altra parte, finendo nella matassa di ragnatela come prede di quel ragno che è il Tempo. Il Tempo concessoci è limitato e te ne accorgi quando è – come scrivi -l’ultima volta e non sapevi che fosse l’ultima.
      Immortality? Credo che esista, “io sto bene qui”…Ho avvertito una pace, un senso alieno e mai avvertito prima d’ora, non so spiegrlo meglio. L’immortalità è forse raggiungere quella pace. Noi, qui ad arrabbattarci e sbatterci perché la Vita è il nostro biglietto chilometrico. Siamo tutti…pendolari 😉 Grazie ancora tiZ!

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        1. Cara tiZ, il mio caro papà è morto il 21 maggio, quindi maggio per me è un mese non delle rose, ma irto di spine come una foresta di cactus. Sogno spesso papà, ho sempre avuto un rapporto molto stretto e anche conflittuale, ma sono immensamente grato a quanto mi ha insegnato e potrei morire sereno se riuscissi a trasmettere ai miei due nanetti la metà dei valori e degli strumenti che i miei genitori hanno dato ai miei fratelli e me. Forse tra i miei fratelli, io sono quello pià simile a lui, nel bene e nel male; quindi a volte cozzavamo.Niente di tragico, ma ordinario rapporto padre-figlio. Fin da piccolo ho sempre dato molta importanza ai sogni: li ricordavo spesso e mi addormentavo con l’intenzione di sognare e sperando di ricordare. E mi capitava spesso. Questo sogno perciò è sicuramente spiegabile per: 1) una certa situazione nel quotidiano di incertezza e tensione (chi non ce l’ha di questi tempi…) 2) le ansie di genitore vecchiarello ma niubbo 3) il mese di maggio e papà.
          Il senso di urgenza che è la dominante del sogno l’ho capito appena sveglio, appena l’io-vigile si è rimesso in moto: ho incastrato i vari pezzi come una serie combinata di mosse che mi hanno fatto risolvere il cubo di Rubik, ta-tlac, ta-tlac, T-LAC! Finito! Non dovevo essere lì o, meglio, potevo esserci solo il tempo necessario per salutare papà: avevo tante cose importanti nella vita reale, mio figlio che sgambetta fuori e papà che alla fine mi saluta con un “ora vai”. Mia madre, che normalmente non appare nel sogno insieme a papà, che è una sorta di Vrgilio nel sogno e mi ricorda che c’è una vita reale che mi aspetta. I fogli colorati sulla bacheca (mai avuto una bacheca in cucina nostra) e la loro precarietà…rappresentano le tante cose da fare nella quotidianità, probabilmente: tante piccole cose – i tanti colori indicano la loro diversità – insignificanti se prese singolarmente, senza significato mi sembravano anche in sogno.
          Dopo avere scritto “Scintille” evidentemente ho innescato un pensiero forte a papà e la voglia di stringerlo di nuovo (è la seconda volta che lo abbraccio nel sogno, questa però è stata fortissima). Quindi il sogno è questo mio fortissimo desiderio, che – come hai ben descritto – è “un dolore intenso lì alla base del collo prima di esplodere in un pianto disperato”.
          Il fatto rilevante e che non mi “spiego” proprio è che papà – per la prima volta in sogno dopo tanti anni – mi ha parlato. “Io sto bene qui” me lo ha detto con un sorriso, un espressione del viso, che mi ha trasmesso: pace. Non un “senso di pace”, ma La pace. E’ stata un’esperienza, una prima esperienza come quella di un bambino che inizia a camminare, ad andare in bicicletta. Devo ancora elaborare e non so se ho gli strumenti per farlo, rischio una deriva mistica 😉
          Una cosa è certa: non è stato un sogno qualsiasi, una normale attività onirica. Mi sento arricchito, un uomo migliore.
          Che dici? Chiamo la neuro?

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          1. Caro red per ora ti lascio questa:

            I rapporti conflittuali sono spina dorsale direi, parte di noi fino al midollo. Io appartengo a mio padre più di quanto lui non appartenga a me. Io ho visto in questo racconto il colore di tutte le cose che lui non è riuscito a realizzare e che tu puoi. .. quindi vai..ora vai e compi ciò che a lui non è stato possibile, senza rancore, senza rimorsi, con tutto l’affetto possibile. ..il colore è vita.
            La storia non la possiamo cambiare ma possiamo scegliere cosa essere. ..

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            1. No nessun rancore, qualche rimpianto di non avere utilizzato bene tutto il Tempo che avevamo a disposizione insieme…Papà mi ha dato la “cassetta degli strumenti” per essere chi voglio essere, ora sì spetta a me non buttare via questa grande opportunità. Pinturicchio non sei nessuno! 😉
              Non conoscevo questa canzone interpretata da Mina, bellissima grazie!
              i’ t’aspiett’ tutte ‘e sere pe’ parlà
              ma dint’o viento se ne và
              dint’o viento se ne va’

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