Quando i media collidono


Normale è trovarsi a parlare davanti alla macchinetta del caffè dell’ultimo film visto al cinema o del libro che hai letto tutto d’un fiato o raccontare della rappresentazione teatrale che ti ha entusiasmato. Normale è dibattere di preferenze, soffermarsi su dettagli e sfumature, descrivere le emozioni suscitate o a darne interpretazioni personali.

Non alrettanto “normale” se inizi a confrontare la narrativa intessuta tra i poligoni di Journey con quella dei “road movie” oppure se parli della sindrome di Asperger prendendo spunto da quel piccolo gioiello “indie” di To the Moon oppure ancora se citi il videogioco Hellblade: Senua’s Sacrifice, che attraverso la metafora dell’avventura della protagonista riesce ad avvicinare al tema del disagio mentale e a creare una consapevolezza differente dagli stereotipi.

In questi casi, la reazione è simile all’immagine di Senua devastata dalle sue psicosi.

Nel migliore dei casi la reazione si limita a un sorrisetto compassionevole che comunica, non solo spregio per chi ammetta la propria passione per – come dicono le persone mature – i “giochini”, ma anche una posizione di pregiudizio e di integralismo culturale, che respinge la pluralità di punti di vista, di esperienze e di qualsiasi contaminazione. Per costoro i media collidono.

La tendenza culturale è invece di convergenza dei media: i processi di consumo mediale hanno una crescente dimensione cooperativa e forme di costruzione collettiva, differenziandosi così dal diretto coinvolgimento individuale dal basso, tipico dalla cultura di massa e della cultura popolare tradizionale.

Dalla convergenza dei media c’è tutto da guadagnare.

“Giochini” è un termine che trovo spregiativo e odioso: relega i videogiochi nelle attività adatte al massimo a un adolescente, negandone una rilevanza culturale esterna. Mi viene da rispondere che i “giochini” non sono quelli fatti con il joypad, ma con frustini e tutine in latex che non indosserebbe nemmeno Catwoman ubriaca fradicia. Con buona pace di chi ha queste preferenze.

Il Videogioco è considerato “periferia” rispetto a Letteratura, Cinema e Musica. Sono certo, statistiche alla mano di questo scalcagnato blog, che alla vista nel titolo o nel tag della parola “videogioco”, una buona parte di lettori ne scarti a priori l’eventualità di cliccarci su. Così come sono certo che se scrivessi “libro”, “film”, “musica” le probabilità di suscitare la curiosità sarebbero ben più elevate.

Non comprendo questo approccio settario non già di ciò che può rappresentare “cultura”, ma ciò che è alla base di un eventuale arricchimento: la curiosità.

È legittimo non essere interessati ai videogiochi in senso stretto, ma trovo anomalo escludere a priori che vi siano legami o intersezioni a temi quali la Letteratura, il Cinema e la Musica con cui siamo più confidenti nell’approfondire, confrontarsi, condividere o anche divergere.

I media, vecchi e nuovi, entrano in apparente collisione. Dall’incontro si generano aree nuove e inesplorate, come accade nella collisione di due placche tettoniche che modifica la morfologia esistente e genera l’emersione di nuove terre.

La convergenza dei media è una realtà, sostenuta dalle aziende che ne hanno compreso l’enorme potenziale commerciale; gli utenti vi hanno trovato spazi nuovi di “libertà” di espressione, a volte giudicati “illegali” dall’industria che chiaramente vuole arrogare a sé ogni diritto di sfruttamento.

D’altronde, almeno chi fruisce o produce contenuti nella Rete, dovrebbe avere sviluppato una resistenza al “settarismo”, grazie all’ipertestualità e alla possibilità di condivisione ampie quanto il termine “world wide web” promette.

La Rete è un volano straordinario di arricchimento (come anche di abbrutimento) e – se si conosce una lingua o due – per la prima volta nella storia dell’umanità permette di giungere alle informazioni senza i filtri della “cultura dominante” del proprio Paese, senza i filtri di qualcuno che ha stabilito per noi ciò che possiamo conoscere, spesso soggetta a valutazioni di convenienza economica o di controllo sociale.

Henry Jenkins, attualmente professore presso la University of Southern California in Comunicazione, Giornalismo e Arti cinematografiche, nel 1999 al MIT co-fondatore e co-direttore del Comparative Media Studies Program (oggi Comparative Media Studies/Writing), sostiene che la convergenza dei media non è soltanto tecnologica, ma sopratutto culturale (Convergence culture, in Italia “Cultura convergente”, Apogeo).

Quando vecchi e nuovi media entrano in collisione, la convergenza prende forma in un processo dall’alto verso il basso (c.d. “top-down”), che ha inizio dalle decisioni prese dalle multinazionali dell’intrattenimento di massa, interessate a fare circolare su ogni medium possibile i contenuti di cui detengono i diritti di proprietà o utilizzo e ne esercitano il controllo.

La convergenza dei media si manifesta in ogni occasione di consumo che rimanda e richiama un’altra, con una moltiplicazione delle esperienze per l’affermazione commerciale e radicalizzazione di ”massa” di un dato “franchise”. Il fine è la massimizzazione del profitto e ampliare il potenziale di mercato.

Allo stesso tempo, la convergenza dei media si forma dal basso verso l’alto (c.d. “bottom-up”), dalla spinta partecipativa degli utenti e consumatori, che desiderano dare una personale interpretazione, modellare il medium sulle proprie vite e “sovvertirne” l’utilizzo raccontando le proprie storie. Gli utenti, da consumatori passivi, diventano pro-attivi utilizzatori dei contenuti esistenti per rimescolarli, creando nuovi contenuti multimediali in nuovi “contenitori”, spazi spesso considerati “illegali” dalle aziende.

In tale processo l’utente può scrollarsi di dosso l’etichetta di “obiettivo” (“target”), spesso da intendersi nel significato militare più stretto ovvero “bersaglio”, e può mettere al centro le sue reali esigenze e modalità di fruizione.

Il concetto è efficacemente sintetizzato da Henry Jenkins quando afferma sull’approccio degli utenti ai media:

They want the media they want when they want it and where they want it

(cfr. Eight Traits of the New Media Landscape © 2006 Henry Jenkins)

Spesso mi sono addentrato in un ginepraio di accostamenti tra i media, dal punto di partenza non ortodosso dei videogiochi, trovando riscontro su quanto afferma Jenkins sulla convergenza dei media.

Il perfetto modello di convergenza “top-down” al servizio delle multinazionali è rappresentato dai videogiochi “tripla A”, ovvero produzioni con investimenti in sviluppo e promozione elevati, da cui si attendono altrettanto elevati risultati nelle vendite. Sono produzioni con investimenti milionari, che vengono declinate e reiterate in un “more of the same” di capitoli successivi e “spin-off”.

Assassin’s Creed della francese Ubisoft interpreta perfettamente il modello descritto: al primo Assassin’s Creed nel 2007 sono succeduti altri undici capitoli della serie principale e sei “spin-off”, romanzi, fumetti, un gioco da tavola, tre cortometraggi e un film con la partecipazione di Michael Fassbender come attore protagonista (tuttavia è stato uno dei più grandi “flop” del 2016).

Sempre più videogiochi offrono ormai contenuti che approfondiscono e ampliano gli universi rappresentati su schermo sotto forma di libri e fumetti, film di animazione e dal vivo, album musicali e anche concerti con orchestra sinfonica.

Come Assassin’s Creed, Grand Theft Auto, Call of Duty, Halo, Final Fantasy sono serie di videogiochi note anche i “non addetti” poiché appaiono sulle testate giornalistiche o in televisione sotto forma di pubblicità o curiosità di “costume”. In particolare, Grand Theft Auto e Call of Duty sono molto noti, oltre per l’enorme successo di vendite, per il clamore mediatico sollevato dalle “crociate” di giornalisti e politici, che pure non avendo preso tra le mani un joypad, accusano i videogiochi di essere dei “simulatori di omicidi” (leggi pure: Chi ha paura dei videogiochi? #6 – Simulatori di omicidi).

In realtà un tale integralismo puritano ha alla base un’ipocrisia di fondo: ottenere facile consenso sull’onda del panico morale generato da alcuni tragici eventi di omicidi da parte di adolescenti o adulti.

Ogni capitolo di Grand Theft Auto non ha mancato di suscitare scandalo: ha fatto sbarcare il lunario a schiere di giornalisti, tappato “buchi” di notizia nei telegiornali, contribuito ad accrescere il consenso per qualche politico fanfarone e a digiuno di qualsiasi esperienza video-ludica.

Call of Duty, serie di videogiochi ambientati in scenari di guerra, a causa del tema militare e della violenza, ha sempre attirato attacchi mediatici con una particolare recrudescenza nel 2009 a causa della pubblicazione di Call of Duty: Modern Warfare 2, che nella missione “No Russian” rende il giocatore autore di una strage di civili all’interno di un affollato aeroporto. Lo stesso videogioco è però anche uno dei casi più eclatanti di convergenza mediatica: la colonna sonora della pubblicità del videogioco è Till I Collapse, brano di Emimem in collaborazione con il defunto Nate Dogg, pubblicato nell’album The Eminem Show del 2002. Nel Regno Unito, dopo la messa in onda della pubblicità, i download a pagamento della canzone (mai pubblicata come singolo) sono stati tali da farla riapparire di nuovo in classifica.

Le piccole produzioni di software house indipendenti (i c.d. “indie”), sconosciute al pubblico di non appassionati, sono un terreno fertile della convergenza dei media. Lo sviluppo gestito da un gruppo ristretto di persone e risorse assai limitate, fanno sì che al centro dell’esperienza vi siano i contenuti e le idee degli autori. Anche i videogiocatori vi partecipano, a partire dalla produzione in forme di “crowd funding” al “passa parola” sui social network o blog.

Così de Blob mi fa sprofondare di nuovo sui banchi di scuola

Somma algebrica emozionale: de Blob (Nintendo Wii)

Così è possibile venire a conoscenza di realtà lontane e così piccole da non essere più rappresentate dai media tradizionali attraverso un semplice “platform” sviluppato dalla stessa comunità che vi si racconta: Never Alone racconta degli Inuit e della loro mitologia.

Never Alone screenshot

Così Journey è un viaggio che mi ha così coinvolto da volerne scrivere due volte. La prima volta per descriverne la perfetta metafora del viaggio, tante volte visto nei film o letto sui libri, ora in un videogioco: è il percorso in una dimensione più intima e personale e, alla fine, esiste una fondata possibilità di sentirsi differenti rispetto a come eravamo alla partenza. La seconda volta per descriverne il modello di multiplayer, un raro esempio di genuina condivisione.

Così non posso fare a meno di riflettere sui confini convenzionali dell’idea di normalità venendo a conoscere dell’esistenza della sindrome di Asperger grazie a To the Moon e sui titoli di coda sentire in gola un groppo di inaspettata commozione.

Così in Finding Paradise, seguito di To the Moon, ci si immerge in un viaggio nel quale è facilmente riconoscibile la propria esperienza di vita vissuta. Chiunque ha desiderato di potere cambiare il proprio passato, chiunque ha anche solo immaginato cosa sarebbe potuto accadere se avesse preso una decisione anziché un’altra in un certo momento della sua vita. Il cinema e la letteratura abbondano di questi temi.

Colin e Faye, amici d’infanzia?

Così posso vivere in prima persona “La Strada” di Cormac McCarthy, vincitore del premio Pulitzer nel 2007, in The Last of Us, in un’ambientazione post-apocalittica il viaggio di un uomo e una ragazzina, due sconosciuti, l’uno potrebbe essere padre dell’altra, un rapporto tra due sconosciuti che si evolve nella direzione opposta a quella in cui va il resto del mondo intorno: l’uno si prenderà cura dell’altro, proprio come padre e figlia.

Così Floating Cloud God Saves The Pilgrims, un eccentrico, scintoista e minimalista sparatutto bidimensionale, ha il dono di fermare l’impalpabile in un videogioco: amore, protezione, custodia, cura, devozione. Il Dio delle Nuvole deve proteggere i suoi fedeli seguaci con ogni mezzo disponibile.

Così mi coglie una malinconia leggera, un richiamo profondo del ricordo dell’infanzia, ascoltando Clair de Lune di Claude Debussy mentre gioco a Rain.

A volere leggere tra i pixel, non siamo in presenza di contenuti o messaggi complessi, sia nel caso dei “tripla A” sia degli “indie”, ma è evidente l’evoluzione del medium, coerente con la sua giovane età, pure tuttavia già potente, evocativo, trascinatore, ispiratore e, più di altri, interattivo.

Il Videogioco, non soltanto ha una dignità pari ad altri media considerati “di massa”, ma contribuisce in modo essenziale e sempre più ampio alla convergenza dei media e allo sviluppo di una cultura più partecipativa e dal signifcato collettivo come non lo è mai stato prima.

Continuate a chiamarli “giochini”, state perdendo qualcosa di più che un semplice “giochino”.

Concedetevi cinque minuti per ascoltare Clair de Lune interpretata dalla georgiana Kathia Buniatishvili.

22 pensieri su “Quando i media collidono

  1. To the Moon ha un seguito??? Devo giocare Finding Paradise!!!

    Bellissimo post, condivido questa esperienza di sentirmi un alieno tirando fuori videogiochi in discussioni “serie”. Mi è capitato di provare a spiegare che capolavoro fosse Thomas Was Alone ma non credo che qualcuno mi abbia mai capito al di fuori della ristretta cerchia di amici videoludici…

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    1. Ebbene sì, potere parlare come di un film o di un libro o di uno spettacolo teatrale coni propri pari nello stesso modo anche di videogiochi è ancora una chimera. Almeno nella mia esperienza. Se invece di fronte hai un appassionato puoi dare libero sfogo ai tuoi pensieri e sensazioni. Ed è un vero piacere! Al di là delle differenze preferenze e “competenze”, ciò che mi innervosisce è l’atteggiamento di pregiudizio, che bolla come “infantile” qualsiasi cosa tu possa esprimere. Se qualcuno mi parla di teatro, pure non essendo un esperto, ascolto con interesse e, anche se non incontra i miei gusti, non mi sogno di avere un simile atteggiamento.
      E ora corri a recuperare Finding Paradise su Gog.com! Dopo che lo hai terminato, leggi cosa ne ho scritto. Sono curioso di sapere la tua opinione e reazione.
      Grazie per avere apprezzato questo mio piccolo contributo.

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        1. Confermo, puoi tranquillamente dedicargli una mezz’ora a sessione (se riesci a staccartene 😜). L’unico consiglio è di non fare trascorrere troppo tempo tra una sessione e l’altra per non perdere il filo della narrazione. FP, come TO The Moon, ha il suo punto di forza nelle emozioni che sa suscitare la storia. Fai come se fosse un libro 😜 Leggi un capitolo la sera prima di addormentarti…anzi no! È un videogioco, un bellissimo videogioco 😂😂😂

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  2. Hai messo tutto il tuo amore per il videogioco in questo appassionato articolo. Spero che lo leggano in molti, ma soprattutto i non videogiocatori. Se non farà scattare la scintilla almeno diraderà un po’ di nebbia davanti agli occhi di quelle persone che ancora li chiamano giochini 🕹️

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    1. Bello questo tuo commento! Sono riuscito a trasmettere la mia passione e ciò mi gonfia di soddisfazione. Scrivere è per me trasmettere, mettere “in comune” anche se si hanno opinioni differenti. Le statistiche di questo blog sono in contrazione da un paio di anni, hanno toccato le centomila visite per ridursi alquanto improvvisamente. Non ho aspettative perciò sull’elevato numero di lettori, tuttavia un gruppo consoldato di aficionados commentano ancora e, tra questi, ve n’è una buona parte di non-videogiocatori (reo-confessi LOL). Sono stato fortunato: la loro partecipazione e i loro commenti sono di persone di ampie vedute. Sono felice dei “pochi ma buoni”. Convertirne anche uno che li chiama “giochini”? Ancora non so camminare sull’acqua, ma se dovessi scoprire di avere questo “potere”, beh avrei altre priorità 😉

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  3. Come sai sono un grande fautore della transmedialità, dove ognuno può scegliersi il medium con cui ha più familiarità oppure spiluccare in giro per ampliare la conoscenza di un universo che ama, però condivido la tua denuncia di questo razzismo mediatico.
    Nella mia vita “fisica” vivo a Roma quindi non vedo intorno a me la situazione che descrivi: libri e film meglio dei videogiochi? A Roma esiste solo la TV, per vedere calcio, cucina e X-Factor, non esiste un solo altro argomento nella Capitale del Vuoto. Libri, film e musica sono ignoti in questa landa desolata, ma almeno non c’è razzismo: tutti i media che non siano la TV sono ignorati allo stesso modo 😀
    Nella mia vita digitale trovo una quantità imbarazzante di razzismo, però di tutti i colori. Come sai sono una schiappa ai videogiochi così seguo molti gameplay su YouTube, dove purtroppo i giocatori parlano mentre giocano, dicendo cose che denunciano la loro totale ignoranza su tutto ciò che non sia videogiochi e quindi scatta il razzismo: è come se ci fossero schieramenti che si fanno la guerra. Lettori contro giocatori, libri contro fumetti, film contro tutti, e via dicendo. Chi ama un film odia visceralmente tutto ciò che è legato a quel film e non sia un film, chi ama un videogioco si taglierebbe un braccio prima di leggere un romanzo legato allo stesso universo, insomma la transmedialità è solo unidirezionale, viene usata dai produttori ma non dai consumatori, che restano ognuno asserragliato nella trincea del proprio medium e sparano a vista su chiunque ami ciò che amano loro ma sotto altra forma.
    E’ un peccato, perché si perdono il gusto di spaziare in altre forme negli universi che amano 😉

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    1. Ottimo avere tirato in ballo questa sorta di “razzismo culturale”, che è poi il tema principale di questo post. I videogiochi sono soltanto lo spunto, il punto di inizio personale dal quale diparte un discorso più ampio. Alto tema è la tendenza sempre più marcata di un atteggiamento di contrasto, fino a diventare aggressivo, nei confronti di chi ha un punto di vista differente. In parole povere si traduce:”con me o contro di me”; non esiste più spazio per la mediazione, per le posizioni intermedie (c.d. “moderate”). Vengono bollate come prive di sincerità o di idee. Una rigidità che diventa “estremismo”. Già l’estremismo comporta dei rischi, ma se aggiungi l’ignoranza diventa una condanna alla mediocrità di una comunità, se non addirittura porta alla sua distruzione.
      A prescindere dai videogiochi, il vero tema è il pregiudizio, l’ignoranza di chi non vuole migliorare e si crogiola nella propria mediocrità.
      La convergenza dei media, anche se presenta alcune “trappole”, è un’opportunità straordinaria. Di certo non saranno i politici o i governi ad aiutare questo processo (vedi Brexit); se non lo facciamo noi, è un altro treno che si perde.

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  4. Applausi ascena aperta da una non-giocatrice… ma sai gia come la penso. Il tempo a disposizione diminuisce e i riflessi tendono a rallentare (chissà perché…) Ma la curiosità è sempre viva, per cui, grazie grazie grazie!

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    1. Grazie, grazie! Sì, già diverse volte hai espresso la tua opinione, ma non smetterò mai di ringraziarti quando rinnovi questa tua generosità di animo. La curiosità è un bene immenso: a volte può creare qualche problema, se ti chiami Pandora; il più delle volte è il motore della scoperta di cose nuove e mai immaginate. Alla via così, anche senza un joypad a portata di mano 😉

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  5. Mi consola un fenomeno che progressivamente si sta verificando: col tempo, chi ha una visione negativa e ristretta dei videogiochi si ritroverà a essere parte della minoranza e chi li apprezza si troverà a essere parte di strati della popolazione più influenti per una mera questione di numeri.
    Probabilmente per allora sarò già cenere da un po’, ma certi atteggiamenti faciloni nei confronti dei videogiochi (ma anche dei fumetti o dell’animazione) saranno destinati all’estinzione.
    Eccetto che in Italia, dove la parrucconeria di certa critica imbalsamata probabilmente regnerà sovrana fino allo spegnimento del Sole 😛

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    1. Statistiche e tendenze alla mano, è vero quanto dici. Il numero dei videogiocatori è aumentato moltissimo (anche se è la parte di utilizzatori “mobile” che traina di più). Anche l’età anagrafica media è auumentata tanto che considerare i videogiochi come attività infantile o adolescenziale (che detengono ancora il primato del maggiore numero di ore di utilizzo) è in contrasto con il dato oggettivo, misurato e statisticamente confermato: in Europa l’età media è 31 anni. Non esiste nemmeno più lo stereotipo di genere: nel 2020 il 45% dei videogiocatori europei appartiene al genere femminile; negli USA il 41%. Le donne preferiscono alcuni generi di videogiochi in cui hanno percentuali anche più alte dei maschi, mentre non giocano per nulla a certi altri (sportivi, FPS e RTS). Se ti interessano queste statistiche leggi pure il Key Facts 2020 a cura dell’ISFE (Interactive Software Federation of Europe).
      Temo che sia vera anche la conclusione e cioé che saremo cenere prima della fine di questi pregiudizi. In Italia è già un miracolo che siano stati sdoganati i film di Hayao Miyazaki. Mi accontento di avere assistito a questo piccolo passo 😉

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  6. Il nocciolo del problema l’hai sviscerato con chiarezza. Escludere i videogiochi come se fossero dei reietti fa parte di quel bagaglio culturale che ci trasciniamo dentro da decenni.
    Videogiochi uguale a fumose sala giochi dove succede di tutto. Videogiochi uguale a Commodore 64 ovvero roba per ragazzini e si potrebbe continuare coi paralleli.
    Quindi sono visti come degli intrusi nel mondo dei media.

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    1. Ogni nuovo medium ha avuto da principio il suo stuolo di detrattori, ma con l’aumento della sua diffusione il pregiudizio è andato scemando fino alla sua totale scomparsa. Il paradosso dei videogiochi è che il pregiudizio rimane saldo anche se ormai la diffusione ha raggiunto quasi la metà della popolazione mondiale. Trovo più “infantile” e fine a se stesso giocare con i social network postando foto di cuccioli o cibi o di se stessi con indosso un capo di abbigliamento alla moda o, peggio, a condividere informazioni per “sentito dire”. Eppure parlare ad adulti di videogiochi è nella maggiore parte dei casi equivale alla perdita di attenzione dopo un nano secondo. Anche meno. Glielo leggi negli occhi. 😂😂😂

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  7. Il disprezzo con cui i giornali parlano dei videogiochi è davvero tremendo e nonostante siano passati diversi anni continuano ancora a trattare i videogiochi come qualcosa di minore e a trattarli con superficialità. Mi ricorda il discorso con l’horror. Per anni l’horror è stato considerato come la parte imbarazzante del cinema nonostante sia stato proprio questo genere insieme al fantastico a far nascere il cinema che oggi tutti noi conosciamo. Inoltre mi fa capire molto bene l’ignoranza che c’è su questo tema quando dicono che solo adesso gli horror hanno iniziato a diventare delle critiche sociali quando già Romero negli anni ’60 lo faceva con La notte dei morti viventi. Quando è così dobbiamo fare del nostro meglio per diffondere questa cultura ed evitare comportamenti superficiali o ignoranti.

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    1. È il pregiudizio di ciò che non si conosce o non rientra negli interessi e si innesta su un più ampio potere di influenza nell’indirizzare i consumi. I videogiochi sono un concorrente della TV: il tempo trascorso a giocare è tempo sottratto a guardare passivamente la TV. È un consumatore che guarda meno la pubblicità, ovvero tanti soldi per la TV. È un consumatore di contenuti di intrattenimento che sfuggono al “controllo” dell’”enstablishment” della critica cinematografica e letteraria. Questi “centri di potere e di influenza” ne risultano ridimensionati.
      Nulla di nuovo se pensi che anche la radio e la stessa televisione hanno avuto la loro schiera di detrattori ai tempi della loro prima diffusione. L’aggravante per i videogiochi è che nonostante l’ormai larga diffusione, il pregiudizio è ancora altissimo e le critiche infondate trovano ancora cassa di risonanza e consensi. Rule of Rose è un caso emblematico.

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  8. Ha già detto tutto “Vitagiocata”. Citi, fra gli altri, The Last of Us, un titolo che, insieme ad Uncharted ha risvegliato la mia voglia di giocare. Per quanto riguarda il disprezzo e il pregiudizio nei confronti dei videogiochi, ci pensavo proprio qualche giorno fa (e ti ho pensato perché per me videogiochi=redbavon). Devo dire che forse i social hanno “allentato” la morsa. Certi intelligentoni hanno capito che il problema non era Grand Theft Auto, ma lasciare una bimba di 10 anni abbandonata a se stessa, anzi peggio, a TikTok. Un saluto.

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