
Segue da Ep.#36 – I love shopping a San Cristobal
Se oggi penso al “tappone” ovvero alla nostra traversata in corriera, dal Chiapas allo Yucatan senza fermate intermedie, avrei detto ai miei compadres: “Voi siete matti!”. Ma la gioventù è bella anche per quel menefreghismo dei propri limiti e il sadico piacere di andare oltre. Non che noi quattro fossimo viaggiatori smaliziati e sprezzanti del rischio, ma questo viaggio lo ricordiamo anche perché abbiamo fatto cose – tutte lecite – che a ripensarci oggi ci viene da esserne fieri.
Il diario del mio amico scriba azteco continua denso di particolari ed è una pagina molto personale, poiché Frank, già alquanto sofferente all’andata per la tortuosità della strada, è rimasto sveglio, mentre Lucio e io dormivamo della grossa. Diego era in uno stato di semi-svenimento a causa della febbre, che seppure diminuita, non l’aveva certo lasciato fresco come una rosa. In corsivo i miei umili (e inutili) appunti.

La tappa è davvero tosta non solo per la lunghezza del tragitto, ma anche per la tortuosità della strada tra San Cristobal a Palenque.
Contrariamente all’andata, una volta giunti a Palenque non si continua per Merida, ma il bus punta alla costa orientale verso Campeche per poi risalire a nord fino a Cancun, per l’esattezza a Puerto Juarez: un totale di oltre mille chilometri e non di autostrada a quattro corsie.
Cinque ore e passa (per fortuna le prime) di curve continue da perfetto male di stomaco.
Consapevole però di quello che mi aspetta (le curve sono già note al mio sensibile stomaco per il viaggio di andata tra Palenque e San Cristobal) e dopo avere subito un secco 2 a 1 da Lucio a scopa (partita non valida per il torneo di scopone scientifico in corso), mi vado a sedere sui gradini vicino al conducente per seguire la strada.
Ricordo che a un certo punto della notte, mio fratello e io, ci risvegliamo dal sonno, gli arti intorpiditi a causa della scomodità della postura e immersi nella semi-oscurità della cabina, illuminata soltanto da una flebile luce nella parte anteriore. Ci accorgiamo di una figura immobile e ingobbita, seduta centralmente nella parte anteriore alla fine delle due file di sedili. Vi riconosciamo il nostro amico Francesco. Ci scambiamo uno sguardo interrogativo: “Ma che diamine ci fa lì Francesco? Il conducente di riserva? La vedetta in coffa? L’angelo-custode?”. Le domande rimangono irrisolte, in volto appare un’espressione tra la rassegnazione e il divertimento, non abbiamo la forza di dare una voce a Francesco, anche perché disturberemmo tutti gli occupanti che dormono. Alzarmi e andare da Francesco, non riceverebbe la collaborazione delle mie gambe e del resto del corpo. Ricordo solo che siamo sprofondati di nuovo nel sonno e abbiamo ripreso i sensi a Palenque.
La scelta è ottima, mi consente di ridurre i fastidi di stomaco e di apprezzare il paesaggio circostante. Il prezzo è però la schiena spezzata.
Inizia a piovere.
Pochi minuti e viene giù un temporale esagerato.
Il paesaggio naturale che ci circonda è comunque superbo, interrotto soltanto dai pochi villaggi e da una splendida cascata. Ogni tanto si vedono gruppi di indios nei loro vestiti tradizionali, che a piedi nudi camminano sotto la pioggia battente.
Penso siano quelli più poveri che vivono in piccole e sperdute cabagnas (la lettera “enne” con l’accento circonflesso nell’italiano-spagnolato non esiste), immerse nel verde della foresta ai bordi della strada.
Guidare un pullman su questa strada, sotto un temporale del genere, non deve essere semplicissimo. La strada, infatti, presenta strapiombi oppure “tunnel” di piante che il pullman sposta al suo passaggio. Eppure l’autista è talmente rilassato, “tranquilo”, da farmi venire persino sonno.
Si procede lentissimi: in questa tratta accumuliamo il ritardo di due ore che ci porteremo fino a Cancun.
In particolare mi colpisce la vista di una donna che è seduta sul ciglio della strada con un bambino tra le braccia, immobile sotto la pioggia torrenziale e nulla intorno per molti chilometri.
A circa un’ora da Palenque, giungiamo al bivio per Agua Azul (spero si scriva così) (France’, incredibile ma ci hai azzeccato!). Le cascate che abbiamo deciso di non visitare (non si può vedere tutto!) sono a quattro chilometri di distanza.
Un tizio – non so dire di quale nazionalità, ma sicuramente europeo – si era rivolto al conducente in un ottimo spagnolo (France’ allora hai fatto finta fino a ora?!? Lo spagnolo lo conosci bene?!?) e, poco prima del bivio, gli aveva chiesto di scendere.
Voleva raggiungere di notte, a piedi, sotto la pioggia torrenziale, insieme alla sua ragazza, le cabagnas vicino alle cascate.
Il saggio conducente gli aveva ovviamente risposto che era meglio pernottare a Palenque. La strada era “muy perigolosa (peligrosa, France’)” e si rischiava di essere “accrastati” (in napoletano il verbo “accrastare'” significa “sopraffare con violenza, rapinare”).
A proposito ho capito che qui gli “accrastamenti”(= aggressioni, rapine) si chiamano “assaltos”
Carino no?
Non vado a verificare il termine, il racconto di Francesco è così vivido che non voglio rovinarlo con un mio ulteriore contributo di pedanteria.
Dopo sette lunghe ore di curve si arriva a Palenque, dove facciamo due soste. La prima è breve per permettere la discesa ai passeggeri diretti a questa destinazione e la salita di quelli diretti per altre destinazioni. La seconda di circa un’ora, cinquanta metri più avanti, è per la cena.
Facciamo la conoscenza con due coppie: la prima di toscani, la seconda di milanesi (stranamente le stesse provenienze dei due viaggiatori solitari incontrati alla stazione di partenza a San Cristobal).
Scambiamo quattro chiacchiere, le reciproche impressioni del viaggio, qualche informazione. Scambiamo anche qualche parola con il “butta-dentro” di una specie di discoteca situata accanto a quella specie di ristorante (dove il conducente, seduto a un tavolino all’aperto, sta consumando avidamente un pollo intero).
Il “butta-dentro” ci illumina sulla tradizionale cucina del luogo: serpenti, formiche e altre schifezze. Credo che ci abbia preso per il posteriore.
Se vi state chiedendo come mai Frank utilizzi il termine “butta-dentro” invece che il consueto “butta-fuori” per indicare quei figuri, normalmente di massiccia corporatura e dall’arcigna espressione, posti all’entrata di una discoteca e incaricati del servizio di sicurezza, voglio rassicurarvi che non si tratta della consueta creatività linguistica del mio caro amico. Il locale, infatti, “quella specie di discoteca” non sembra frequentato da frotte di locali e non ha le caratteristiche per attrarre i turisti di passaggio, anzi ha un aspetto che consiglia di starsene all’esterno. D’altronde anche “quella specie di ristorante” accanto non invita a rimpinzarci per quanto la fame faccia sentire i morsi. Vi assicuro che nessuno di noi quattro ha mai mostrato durante tutto il viaggio segni di “snobismo turistico” tipicamente italiota e ci siamo adattati davvero in qualsiasi luogo. A Merida, per esempio, alla vista di quattro giovinastri zaino in spalla, ci assegnarono due camere sfigatissime, nell’ala del personale di servizio, con il timore che potessimo disturbare la pregiata clientela dell’albergo, che era in un raffinato stile coloniale, curatissimo e con tanto di piscina sul tetto. Evidentemente non ci hanno considerato all’altezza del contesto, ma – si sa – pecunia non olet e ci misero in un’ala dove non avremmo creato “problemi”. A Isla Mujeres poi abbiamo toccato davvero il fondo.
Il prosieguo del viaggio fino alla isla – così la chiamano i Cancunesi (traduci: gli abitanti di Cancun) – va liscio come l’olio: strade dritte e pianeggianti.
Dormiamo tutti, anche l’ormai completamente guarito Diego.
Il nostro sonno è disturbato di tanto in tanto da sommarie ispezioni di militari ai posti di blocco. Almeno cinque.
Il resto del viaggio dal terminal bus, via taxi, a Porto Juarez e traghetto fino alla Isla è tutto sommato veloce.
All’arrivo a Isla Mujeres o, meglio, come Lucio e io preferiamo chiamarla “Isla Muglieres”, sono circa le tredici.
Partiti alle 16:35 e arrivati alle 13:00 del giorno seguente il viaggio è durato oltre venti ore. Come sia sopravvissuto per raccontarlo è un mistero.
Si conclude su queste righe il diario di Francesco e d’ora innanzi dovrò fare appello ai ricordi e a quella pagina di sintesi del mio diario. Quantomeno non dovrò consumarmi la vista e bruciarmi il cervello per comprendere i geroglifici maya del Grande Uxmal, al quale va la mia incondizionata e infinita gratitudine sia per essere stato un compagno di viaggio, sia per avere sopportato le mie giocate della minchia a scopone scientifico (a Cancun metterò a dura prova la sua proverbiale pazienza), sia per avermi sostituito egregiamente come preciso cronista.
E chi non viene con noi a farsi il bagno a Isla MuGlieres, possa suscitare l’antipatia senza motivo del “butta-dentro” di quella specie di discoteca in periferia di Palenque. Il resto non posso scriverlo perché fa troppo ribrezzo.
fatto il viaggio terrificante. Sudate le proverbiali sette camice ma alla fine sono arrivato con voi fino al traghetto.
Mi pare ottimo l’alternarsi del diario e delle note a corredo, così tutto appare chiaro.
Sono in prima fila col classico sacchetto di semi di zucca in attesa dell’imbarco.
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Ottima scelta i semi di zucca! Dopo questa sfacchinata da autentici “globe trotter” ci attende la meritata “ricotta” (se non ricordi il significato in napoletano, è comunque intuibile) sulla bianca battigia e le acque turchesi della Isla. Siamo quasi alla fine e sarà dura lasciate questo racconto almeno quanto è stata dura lasciarsi il Messico alle spalle.
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il riposo dei guerrieri sulla Isla. E’ un peccato che finisca.
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Ma quando finirà ho una mezza idea che continuerà qualcos’altro da quelle parti….c’è una taverna niente male, mi hanno detto. 😉
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Riapre la taverna?
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Seguro compadre! Non so i tempi esatti, ma già sto “lavorandoci” su.
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ma io sarò paziente in attesa che la taverna riapra
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