Viva il Messico! Ep.#31 – Da Palenque a San Cristobal


Segue da Ep.#30 – Loving the Mayan alien

A Palenque il diario scritto di mia mano termina e con esso la dettagliata cronistoria della nostra compagnia di caballeros della Pietà e della Misericordia. In poco più di due pagine scritte il 24 settembre su un treno Roma-Napoli sintetizzo il resto del viaggio dalla partenza in corriera da Palenque alle successive mete: San Cristóbal de Las Casas, San Juan Chamula, il canyon del Sumidero, il lunghissimo viaggio di ritorno in Yucatan e lo sbarco a Isla Mujeres; infine la breve permanenza a Cancun prima del decollo verso la patria natia.

Oltre alla data esatta – cosa anomala nei miei “diari” – vi leggo anche che è un mese esatto dalla fine del viaggio, perciò riesco a stabilire che il 24 agosto l’avventura messicana è terminata. Tuttavia, il ricordo era vivido nella memoria a giudicare dalla fitta sequenza di nomi, luoghi, eventi che occupano una pagina intera.

Allora giunti al trentesimo episodio finalmente si chiude il sipario su questa tele-novela?
La risposta è no.

Il racconto può continuare fino alla fine grazie a un piccolo blocco-note e otto pagine “volanti” scritti da Francesco, detto Frank, detto Palmera, illuminato sulla via di Tikal (anche se poi era Ticul) di essere la reincarnazione del Grande Uxmal, che – per inciso – non è il nome di un antico re o di una divinità maya, ma di una città.
Il fatto che l’ottimo Frank sia stato posseduto in quel periodo da un’entità maya ha tuttavia qualche fondamento: interpretare la sua grafia è compito degno di una squadra di esperti filologi supportata da esperti archeologi. Le lettere somigliano in modo inquietante a glifi di antiche civiltà scomparse da millenni.

Il racconto degli eventi seguenti è perciò una “ricostruzione” al pari di quella degli archeologi, frutto anche dei ricordi che mi ha fatto affiorare la lettura degli appunti di Francesco. Vi saranno “colpi di scena” e un cospicuo numero di ulteriori svarioni epocali, raccolti nella “Classifica della Vongola“, che aggiornerò di conseguenza. Non perdetevi questo ultimo “rush” finale perché il Chiapas è la parte del viaggio che mi è rimasta più nel cuore.

Ringrazio il Grande Uxmal che ha guidato la mano di Frank per sostituire questo umile scrivano, indegno sia per nascita mortale sia per l’inesperienza nell’arte dello scalpello e dei glifi. Senza l’intervento divino di Frank non avremmo avuto modo di conoscere nei dettagli come è andata a finire. Di seguito i miei ricordi sulla via di San Cristóbal de Las Casas.

Seconda metà dell’11° día

Tornati dalle ruinas di Palenque, il tempo di recuperare gli zaini dalla reception dello splendido Chan-Kah e raggiungiamo con un taxi la vicina stazione della corriera in partenza per San Cristóbal de Las Casas via Ocosingo.

Una tappa di poco più di duecento chilometri, circa quattro ore e mezza, che data la tortuosità della strada immersa nella foresta tropicale si traducono in più del doppio. Arrivo stimato nelle prime ore della sera. Ho verificato gli orari oggi: partendo da Palenque alle 12:00 si arriva a San Cristobal alle ore 20:55.

La strada è tortuosa e alquanto stretta, considerato anche l’ingombro della corriera, tuttavia non desta preoccupazioni l’eventuale incontro con un altro veicolo in direzione opposta poiché si rivela molto poco frequentata da altri autoveicoli o motoveicoli. Sono invece più frequenti gli incontri lungo i bordi della carreggiata con indigeni a piedi, a volte solitari, a volte famiglie intere, vestiti con il tipico poncho, spuntati dal nulla e diretti non si sa dove visto che la strada è letteralmente incassata in una fittissima foresta tropicale, che preghi la Madonna e tutti i Santi in ordine rigorosamente alfabetico (per non rischiare di scontentare qualcuno) che il motore non si pianti o si sfasci qualche altra componente essenziale del veicolo.

Ogni tanto si avvista una casa e ci si domanda come sia finita lì. Il luogo infatti sembra ideale per la casa di marzapane in cui si imbatterono Hansel e Gretel. Il luogo non ispira sicurezza, anzi alimenta una costante sensazione di “pericolosità”.

Se di notte mi si fermasse in panne l’automobile, sono certo che sarebbe più probabile trovare le vestigia di un antico insediamento maya piuttosto che le ossa della mia carcassa.

Ad alimentare l’aura di anomalia misteriosa del luogo, contribuisce un altro particolare: il logo della Coca-Cola iscritto nel tipico grande cerchio rosso è dipinto sulle facciate delle sparute case avvistate lungo la strada. Lo abbiamo visto in luoghi in cui siamo capitati per caso come a Santa Elena sulla via di Ticul (vedi foto), lo abbiamo visto spesso dipinto sui muri delle case.

Yucatan, Santa Elena 1999. Se andate sulla Street View di Google Maps è cambaito poco…

La nostra meraviglia viene nuovamente alimentata dalla sua apparizione in questi luoghi, quintessenza della smemoratezza di Dio, sui muri delle sparute case, unico segno della presenza umana in una fittissima foresta in cui la strada è letteralmente incassata.

Abbiamo chiesto lumi ai messicani: ci è stato risposto che gli “yankee” per diffondere la famosa bevanda anche in questi remoti luoghi usavano regalare bottiglie di Coca-Cola, bicchieri e costruire campetti di basket.
Agli “yankee” bisogna riconoscere una spiccata capacità imprenditoriale: in un luogo, dove la statura media è modestissima, fare accettare un gioco adatto a spilungoni di due metri e passa dimostra che possono vendere ghiaccioli agli eschimesi.
In cambio della loro “prodigalità”, gli “yankee” chiedono la pubblicità sulle facciate delle case.

Il consumo di Coca-Cola in Messico è elevatissimo tanto da fare intervenire il Ministero della Salute con una campagna d’informazione dei danni del consumo eccessivo di bevande gasate con forte contenuto di zuccheri.
Il gioco di basket sarà protagonista di un episodio del viaggio: a San Juan Chamula avrà luogo un epico incontro Messico-Italia, anzi Chiapas-Italia.

In un raro bivio della strada principale avvistiamo il cartello che indica la direzione per le meravigliose cascate di Agua Azul, che in origine avevamo eliminato dall’itinerario, seppure con tanto rammarico, poiché la deviazione ci avrebbe portato ben oltre la ventina di giorni previsti. Nel viaggio di ritorno Frank racconterà di un episodio che fa luce su quanto la citata sensazione di “pericolosità” del luogo abbia un fondamento.

A Ocosingo è prevista una sosta: insieme agli altri occupanti della corriera pascoliamo in una sorta di parcheggio tra quattro case e nessun’altra anima viva nei paraggi.
La foto seguente è stata scattata proprio durante questa sosta: a sinistra il pittoresco figuro con cappello che sembra Jesus Christ Super Mexican Star è Diego; a destra, in primo piano, un provato Frank, che non ha molto gradito la tortuosità del tragitto e si disseta con una Coca-Cola; infine, alle spalle di Frank, mio fratello Lucio che spinge il suo sguardo oltre la rete metallica di recinzione: praticamente nel nulla.

Chiapas, Ocosingo: tre dei quattro caballeros immortalati in questo posto sperduto.

Giunti finalmente a destinazione beneficiamo del cambiamento climatico: dalla calura e umidità asfissiante delle piane dello Yucatan ai poco più dei duemila metri di altitudine di San Cristobal.

La sera addirittura rinfresca, tanto da convincerci ad acquistare un tipico poncho di lana grezza, che indossano gli indigeni, per il modestissimo importo di diecimila lire (cinque euro): il mio poncho di colore blu carta da zucchero – a parte un paio di ricuciture alla base del cappuccio – resiste dopo quasi venti anni ed è la mia seconda pelle invernale.

Dalla stazione delle corriere raggiungiamo lo zocalo.
A breve distanza vi è l’albergo che ci ha indicato Jimmy, fratello di Francesco e nostro mentore del viaggio. La Posada Santo Domingo (che non sono riuscito a individuare oggi) è un luogo accogliente, le camere con un ottimo livello di comfort, personale cordiale, letti comodi.
Nella mia personale classifica degli alberghi la Posada Santo Domingo divide il terzo podio con El Mesón del Marqués di Valladolid, alle spalle di Osho Maya nella zona hotelera di Tulum e l’inarrivabile podio più alto aggiudicato a mani basse al Chan-Kah di Palenque.

La formazione si divide nelle due coppie consolidate nel torneo di scopone scientifico: mio fratello Lucio con il suo ex-compagno di classe al liceo, Diego; Frank e io, gli “anziani” del gruppo. Non è possibile correre il rischio di svelare, magari inavvertitamente parlando nel sonno, le tecniche segrete di scopone che ogni coppia applica.

Prima di andare a dormire, urge riempire lo stomaco. Scegliamo una posada che si affaccia sullo zocalo, anche perché vi è all’interno una numerosa e allegra compagnia di compatrioti. Dal vociare riconosciamo la loro provenienza: Roma.

La presenza di altri turisti é una buona garanzia che l’oste conosca quanto siano delicati gli intestini di noi occidentali e abbia predisposto le opportune cautele in cucina e nelle preparazione delle bevande. Il nemico “numero uno” è infido e il suo nome è: hielo. Un solo cubetto di ghiaccio di acqua non purificada porta il sigillo della maledizione di Montezuma e come inseparabile compagno notturno la tazza di ceramica sanitaria.
Troppo stanchi per presentazioni e riti di conviviali patriottici, a parte qualche incrocio di sguardi a conferma della nostra comune origine italica, consumiamo la nostra cena nella formazione-tipo di scopone scientifico. Tra la compagine romana si fa notare la presenza di un’altissima ragazza bionda. Un caro saluto a Laura, nel caso stia leggendo queste righe.

Fine della giornata con il bum-bum

Dopo cena, ci fermiamo a un bar accanto alla posada. Al bancone chiediamo la nostra consueta dose di tequila. Qui avviene una particolare somministrazione della tequila.

Non chiedetemi come e perché, ma il barista alla nostra richiesta di una tequila bum-bum, la chiama mopez (il termine potrebbe essere differente, ma lo ricordo così).
Il barista ci fa capire che può servirla “liscia” o con un trattamento tutto particolare. Accetto il trattamento particolare.
Il barista versa tequila e acqua tonica nel tipico bicchierino riempiendolo fino all’orlo senza lasciare cadere una goccia sul bancone, mi fissa con uno sguardo di intesa, ricambio con un cenno del capo e uno sguardo in un’espressione di euforia delirante; quindi ricopre il bicchierino con una salvietta di tela e lo batte energicamente per due volte consecutive sul bancone, due colpi rapidi e secchi. Con uno scatto da crotalo mi porge il bicchierino e lo porto in un istante alle labbra.
Con tempismo perfetto nel momento in cui svuoto il bicchierino in gola, il barista si sporge dal bancone, afferra con entrambe le mani le mie tempie e inizia a scuotermi la testa, producendo con la bocca una sorta di fischio prolungato.
L’effetto è un moltiplicatore dello stordimento da alcol elevandolo a una potenza con esponente logaritmico.
Per quei brevi attimi non ho più avvertito la presenza del mio metro e ottantatré e della settantina di chili di ossa e adipe.Tutto sembrava essersi concentrato nella testa in una spirale dal movimento inerziale come nel vuoto cosmico.
Quando riprendo consapevolezza di essere ancora su questo pianeta, la tequila ha fatto ciò per cui Nerone è passato alla storia: dall’esofago fino allo stomaco, tutto è in fiamme.

Per fortuna la Posada Santo Domingo è a tre minuti a piedi dallo zocalo, la raggiungiamo e sprofondiamo nel sonno che domani ci aspetta la gita fuori porta a San Juan Chamula.

E chi non viene con noi in giro per San Juan Chamula, gli si possa piantare di notte il motore dell’automobile sulla strada per Palenque durante un tipico temporale tropicale.

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20 pensieri su “Viva il Messico! Ep.#31 – Da Palenque a San Cristobal

    1. L’Africa! Ci sono stato tre volte, Zanzibar, Zimbabwe e Botswana, quest’anno Kenya. Certo sei comunque un privilegiato, ma sia il contesto naturale sia quello umano è sicuramente quello meno simile al nostro standard. Mi sono sentito a casa per esempio anche in Grecia, a Thessaloniki; in Oriente una città dove potrei vivere è Kuala Lumpur in Malesia. Mentre il luogo meno accogliente in assoluto nei miei viaggi è la Norvegia. Anche in Alto Adige mi sono sentito alquanto “gringo”.

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      1. Sono in Alto Adige proprio in questo momento (come ogni Estate), e non posso che darti ragione: sarà pure una zona efficientissima e stupenda dal punto di vista estetico, ma quanta freddezza a livello umano… colgo l’occasione per dirti che ho appena sfornato un nuovo post: spero che ti piaccia! 🙂

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        1. Ho letto il tuo post ma non ho la stessa entusiasta opinione. In breve, a prescindere da un commento politico, di cui mi astengo come mia regola sul web, non ha assolto al suo ruolo “super partes”, ma era decisamente parziale.

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          1. Non sei il primo a dirmi che ho mitizzato un po’ troppo il personaggio – Cossiga. Del resto era inevitabile che succedesse: è stato un mito della mia adolescenza! 🙂 Grazie mille per la risposta e per aver letto il mio post! 🙂

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        2. perchi ha abitato per tre anni in AltoAdige, qualche anno dopo il periodo dei fuochi devo dire che mi sono trovato bene. Certo sono diffidenti all’inizio ma poi sono gentili. Come in tutte le comunità ci sono gli stronzi – scusa il termine – ma è fisiologico. Il turista tendenzialmente tende ad avere un rapporto strano con i locali come se pagando tutto fosse dovuto. Forse non è il vostro caso ma durante quel periodo ho potuto notarlo diverse volte.

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          1. Non mi fraintendere: in Alto Adige sono stato bene e non è mio costume né fare generalizzazioni (ahimè accade spesso il contrario da quelle parti) ne’ considero quel tipo di turista arrogante che hai descritto.
            È una sensazione frutto di un’esperienza sicuramente superficiale , ma allo stesso tempo che autenticamente provata come le sensazioni dal profondo. Chiaro che queste sensazioni vanno elaborate razionalmente e alla luce dell’esperienza, ma a parità di veste di “turista” l’Alto Adige ha prodotto in me una sensazione respingente, di “gringo” ovvero “straniero” pari a quella che descriverò quando giungeremo a San Juan Chamula. In altre parti del mondo, assai meno ricche e alfabetizzate (quindi con meno strumenti per superare i pregiudizi) ho trovato un’accoglienza una spanna superiore. Per fare un esempio più vicino, in Trentino mi sono sentito più a mio agio di quanto mi fossi sentito in Alto Adige. Purtroppo di “turisti arroganti” ne ho trovati dappertutto e di ogni nazionalità, ma come dicevi tu si tratta di un fattore comune di “strunzita’”.

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            1. certo la prima sensazione è proprio quello di sentirsi “stranieri”, perché si sentono loro stessi stranieri in Italia. Nel Trentino, che conosco ugualmente bene, il discorso è diverso. Loro si sentono italiani diversamente sai sudtirolesi. Abitando le sensazioni sono diverse. Come hai sottolineato anche tu il turista ‘arrogante’ è duro a morire.

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          2. A mio giudizio non è che i turisti hanno una mentalità del tipo “Io vengo qua, pago e faccio girare l’economia, quindi stendetemi il tappeto rosso appena scendo dalla macchina”. Semplicemente si aspettano di trovare gente che li faccia sentire bene accetti, e con cui si possa stringere qualcosa di simile all’amicizia nel giro di pochi giorni. A me questo è successo a Udine, in Liguria, in Romagna, in Campania e in un sacco di altri posti, ma in Alto Adige mai. Al massimo mi è capitato che qualche albergatore scambiasse con me qualche parola in più dello stretto necessario, ma anche in quei casi avevo l’impressione che lo facesse in maniera impacciata, che non gli venisse affatto naturale. Come hai detto tu, probabilmente una volta che entri a far parte della comunità come residente e non come turista di passaggio le cose cambiano. Grazie per la risposta! 🙂

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    1. Mi gonfia il cuore ogni volta che mi scrivi parole che confermano l’emozione del tuo e del mio ricordo, sebbene viaggiatori in queste meravigliose terre in momenti differenti. Sembra veramente di ripetere di nuovo la strada, insieme. Grazie a te, compadre. Estás listo para por San Cristobal e San Juan Chamula?

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