Album di figurine – Anche le schiappe vanno in Paradiso [Parte #2]


Claudio alla Scuola Calcio (Ripi - FR)
Accovacciato, in basso a sinistra: indosso la maglia di calcio della squadra del – pura coincidenza – Campania. Lo so, tempo buttato!

Segue da [Parte #1]

Quando quel giorno il papà e la mamma annunciano a Claudio che lo avevano iscritto alla scuola di calcio, i due genitori sono davvero raggianti. Hanno preso questa decisione per il bene del loro primogenito.

Non che valutino di poco conto le manifestazioni della fervida immaginazione di Claudio: apprezzano i suoi disegni, la mamma ne conserva uno in particolare, un asinello con un’espressione che sembra parli; assecondano la sua curiosità per i libri e non gli negano i suoi balocchi preferiti, cioè le  scatole di soldatini in scala “HO”. Claudio ne ha veramente in quantità e dimostra di conoscere il valore di questi regali, tenendo tutto con cura.

A mamma e papà preme che il figlio giochi con gli altri bambini. Hanno notato che Claudio tende a isolarsi: non che abbia problemi con gli altri bambini, anzi il figlio stesso li rassicura che è felice anche di giocare da solo, ma il gioco, in Natura, anche tra gli animali, è una palestra di vita. Insegna a stare insieme, a rapportarsi con gli altri e a gestire gli eventi con un certo grado di autonomia e assunzione di responsabilità. Giocare insieme agli altri aiuta a crescere.

Quando un collega di lavoro invita il papà di Claudio a fare partecipare il figlio alla scuola-calcio che ha organizzato nel paese dove abita, distante circa una dozzina di chilometri, il ragazzino di undici anni si ritrova catapultato nel calcio, quello vero: porte regolamentari, campo regolamentare, pallone di cuoio, undici giocatori per squadra, una divisa e un allenatore. Claudio è nel mezzo del più classico dei fenomeni cosiddetti delle “sliding doors”. Davanti a sé due destini possibili: diventare un giocatore di calcio migliore (non che l’obiettivo fosse difficile vista la scarsissima base di partenza) oppure consacrarsi definitivamente a “schiappa”, estendendo tale “fama” non solo tra il limitato pubblico del suo cortile, ma anche ai paesi vicini. Praticamente una figuradimmerda globale.

All’epoca, nelle scuole di calcio non vi era tutta quella “partecipazione” dei genitori come ai tempi odierni. Oggi, ogni bambino che conosco fa la “scuola-calcio”. Non è uno sport, come la pallavolo, il basket, il tennis. Oggi è un’ossessione. Un’ossessione per lo più per i genitori, che vi riversano le speranze di un futuro di successo e soldi per i propri figli: rapido e senza troppi sbattimenti di studio, tanto a che serve la laurea se poi fai l’apprendista per cinque anni o passi da un lavoro temporaneo a uno precario ogni “tot” d’anno?

Non c’è nulla di male a desiderare per i propri figli un roseo futuro, ma non tutti hanno “i piedi buoni”; se poi consideriamo che ogni squadra è fatta da undici titolari e mezza dozzina di riserve, il calcio professionale non è certamente una fabbrica di posti di lavoro. Pertanto la legittima speranza, nel giro di una stagione o due, si tramuta spesso in rabbiosa frustrazione, che sfocia in comportamenti contrari al significato del calcio e di ogni sport: urli contro l’arbitro con sfoggio di poco nobili epiteti, contestazioni all’allenatore perché ha messo in panchina il loro “campione” o, addirittura, incitazioni al proprio rampollo affinché intervenga sulle gambe dell’avversario senza troppi complimenti. Gli specialisti in ortopedia ringraziano.

La scuola di calcio di Claudio non è così.

Messo di fronte a un pallone, ogni bambino, che abbia imparato a reggersi stabilmente sulle sue gambe, ha l’istinto di dargli un calcio. A volte ci prende, a volte svirgola, a volte neanche lo sfiora e, per lo slancio agonistico, cade pesantemente a terra sul posteriore. Questo primo movimento di “attività sportiva” è l’espressione di tutta l’ingenuità e l’istintività del bambino, che scopre di potere indirizzare il pallone coordinando il proprio corpo.

Ebbene, questa scuola-calcio fondata da quel bravo collega di papà si ispira a quest’idea di preservare questa sensazione istintiva e spensierata, che ogni bimbo prova a correre all’aria aperta, su un prato, che – insieme ad altri bambini –  diventa sciame deliziosamente delirante senza possibilità alcuna di prevederne la direzione. Nella vita quotidiana, con o senza pallone. Nella scuola-calcio, con il pallone al piede.

L’impatto con la scuola-calcio per Claudio non è perciò traumatico. La cornice poteva intimorire: porte regolamentari, campo regolamentare, una divisa uguale per tutti (maglietta e pantaloncini bianchi), tante facce sconosciute, due allenatori. I bambini sono più o meno dell’età di Claudio e provengono dai dintorni. Figli di professionisti, figli della borghesia dei lavoratori negli uffici statali, figli di operai, figli di contadini, tante estrazioni sociali e culturali confluiscono in un “kicking-pot” del gioco del pallone. Su quel campo, non vi è alcuna differenza, tutti uguali per i due allenatori che avviano questa quarantina di bambini alla tecnica del calciare correttamente il pallone, con la consapevolezza che il calcio è un divertimento con delle regole di gioco e di comportamento, sia nel campo, ma anche fuori dal campo. Nessuna necessità di essere o arrivare “primi”, l’importante è il divertimento e la felicità dei noi ragazzini. Tutti uguali, tutti i bambini, con la stoffa da campione o con la toppa da schiappa, hanno il diritto di giocare.

Non che la vittoria non conti, anzi la vittoria diventa uno strumento di motivazione e continuità, non l’obiettivo primario. La competizione è uno sprone a superare i propri limiti sempre in ossequio di principi di lealtà e rispetto dell’avversario.

Nelle partitelle che seguono l’intenso allenamento, i due mister riescono a trasmettere un’ “educazione” alla vittoria: non sottolineano troppo le sconfitte o gli errori commessi, incoraggiano questi “giocatorini” su quanto di positivo hanno dimostrato in campo durante la partita.

Sotto lo sguardo attento dei due allenatori, Claudio inizia a dare sfogo alla sua fantasia stando in compagnia, impara a essere più intraprendente e inizia per la prima volta a divertirsi dando calci a un pallone insieme a una banda, che sia per numero sia per attitudine alla rissa per futili motivi, non avrebbe sfigurato al fianco del ben più famoso Alì Babà.

La scuola-calcio diventa quindi un momento di crescita non soltanto sportiva, ma di crescita umana nel sentirsi parte di un gruppo e vivere le proprie emozioni per e attraverso il gruppo stesso.

Claudio è conquistato da questa filosofia dei due mister e dall’atmosfera che si è creata con gli altri ragazzi. Non si sente troppo il classico “pesce fuor d’acqua” e, finalmente, quando entra in campo, non viene sbattuto in porta. Si impegna e cerca di fare il meglio che può.

Ma Claudio ha due problemi.

Per indirizzare il pallone correttamente e in uno schema di gruppo con il fine primo di passare e ultimo di segnare il gol, è essenziale coordinare il proprio corpo. Il problema per Claudio è proprio il coordinamento: totalmente assente.

Il secondo è che il significato della parola “competizione” per Claudio corrisponde a ciò che nell’insiemistica chiamano “insieme vuoto”, che non significa nullo, il fatto che sia “vuoto” postula la sua esistenza; così, Claudio conosce che esiste la sana competizione agonistica ma non è minimamente sfiorato. Chiamatela “auto-difesa” o comportamento “da volpe che non riesce arrivare all’uva”, chiamatela fede cieca e applicazione pratica del principio decubertiano dell’’”importante è partecipare”, resta il fatto che la competizione non rappresenta per Claudio uno stimolo.

Claudio, accompagnato dal papà al campo, i pomeriggi in cui è previsto l’allenamento, segue tutto il percorso di preparazione atletica e di tecnica del pallone. Il pomeriggio di allenamento consiste per lo più in esercizi ginnici, con e senza pallone: corse, scatti, slalom tra coni ravvicinati e paletti, dai-e-vai, flessioni e addominali, torsioni, salti e altre attività che forgiano il fiato e i muscoli. Alla fine dell’allenamento, ci scappa la partitella di venti-trenta minuti in cui i ragazzi vengono lasciati liberi di giocare secondo la loro fantasia sotto l’attenta supervisione dei due mister. I mister incitano, sbraitano, richiamano i più focosi, suggeriscono. Individuano così i ragazzi più talentuosi, cercano di capire quale potrebbe essere il ruolo e la posizione ideali per le loro qualità. Queste partitelle, oltre che essere occasione in cui fare sfogare i ragazzi (perché dopotutto sono venuti qui per giocare a pallone), si rivelano utili per trasmettere i rudimenti di tattica, spiegare le formazioni e i moduli di gioco.

Date a Claudio un libro di storia e ve lo racconterà a memoria, anzi riuscirà a carpirne anche i dettagli nascosti o le minuzie che non avete notato, ma se gli parlate di “4-3-3” e “5-3-2” inizia a dare…i numeri. Letteralmente.

Con l’avvicinarsi dell’estate e della chiusura estiva delle scuole, per i mister è il momento per tirare le somme della stagione. Pertanto viene annunciato con grandi proclami il Torneo dei Tornei. L’annuncio è una ferale notizia per Claudio, tanto più che l’invito ad assistere a tale Evento viene esteso ai genitori, fratelli, parenti, amici e affini. Già l’idea di una competizione lo spaesa, ma addirittura sotto i “riflettori” di un pubblico, il rischio che la sua “stoffa” venga notata è motivo di oggettiva preoccupazione e seria riflessione se sia il momento giusto per una vigliacca, ma pure sempre salvifica ritirata strategica.

L’abbandono della scuola-calcio è, tuttavia, fuori discussione, non già per la paventata onta di viltà, ma perché questo comportamento, legittimo per istinto di sopravvivenza, rappresenterebbe una delusione nelle aspettative del resto della famiglia: mamma, papà e fratellino non vedono l’ora di vedere Claudio giocare “titolare” in una squadra di calcio. E quando più gli capita?!?

Il momento della Verità

Il torneo consiste in un girone a quattro squadre, ognuna a turno sfida le altre tre, alla fine di tutte le partite, la prima e la seconda classificata giocano per la coppa e la terza e la quarta per la consolazione.

Le quattro squadre sono: Piemonte, Lombardia, Campania e Lazio. La scelta è, per combinazione o calcolo, rappresentativa della tifoseria tra i ragazzi, composta per lo più da tifosi della Lazio (siamo in questa regione) e della Juventus, qualche infiltrato milanista e interista e un unico napoletano. Indovinate chi è l’isolato terroncello?

Le quattro squadre sono bene equilibrate, tutte piuttosto forti, ma il Campania e la Lombardia hanno degli elementi che possono fare la differenza. Si preannuncia un torneo tiratissimo.

Claudio è nella squadra del Campania.

Con il senno del poi, il motivo di creare una squadra della Campania nel torneo appare bizzarro. Va forse ricercato nel fatto che, essendo il papà di Claudio, dirigente dell’ufficio in cui uno dei mister lavora, si può ipotizzare che sia un gesto del mister, mosso non da piaggeria, ma da gentilezza verso il papà e suo figlio, unici tifosi del Napoli. Ringrazio due volte il mister sia per l’opportunità di giocare il vero calcio in un vero campo, sia per questo gesto premuroso.

Se mi chiedete quale squadra abbia vinto il torneo, non lo so.  Non lo ricordo, ho rimosso. Se non lo ricordo, vuole dire che sicuramente non era il Campania, ma non ci giurerei.

Claudio viene schierato nel ruolo di mediano sinistro. Non chiedetemi perché. Il mediano è un lavoro sporco, non esaltante; al mediano non si chiede di fare grandi giocate, ma di non sbagliare i passaggi. Ruolo molto utile alla squadra, poiché se il mediano viene superato la squadra rimane praticamente scoperta. Doti imprescindibili per tale ruolo sono perciò: forte grinta, nessun timore nei confronti anche degli avversari più forti e dei piedi decenti.

Claudio non ha nessuna di queste tre doti.

L’unico motivo per tale posizione è che il resto della squadra è una macchina da guerra. Difesa d’acciaio, impenetrabile. Attacco veloce e con una punta con doti da cecchino. Sono messi in campo alla perfezione, coprono tutte le zone, pressano il portatore di palla in due o addirittura in tre e ripartono con collaudati passaggi verticali. I mister sono orgogliosi, soddisfatti: sembra che i ragazzi abbiano imparato tutto a memoria. Giocano concentrati, la loro testa è occupata solo dalla palla e da come portarla sotto la porta avversaria, senza il minimo briciolo di ansia di commettere errori.

Per Claudio, invece, l’unico pensiero è di finire quanto prima la partita tanta è l’ansia di sbagliare: ogni volta che la palla arriva nelle sue vicinanze, avrebbe voluto che una fossa si spalancasse all’improvviso sotto i suoi piedi.

Claudio, perciò, mette in atto una pratica falsamente accreditata alla Marina borbonica, messa in giro ad arte dai piemontesi, nota come “fare ammuina”, ovvero il creare molto rumore, traffico per fare credere a uno spettatore esterno che ci si sta dando molto da fare. Il suo gioco si basa sulla resistenza: consiste nel correre, correre e correre, si muove lungo la fascia, con rare puntate in profondità, concentrato a mantenere salda la posizione con un mix letale di abnegazione, stoicismo e senso di responsabilità, che normalmente porta all’auto-distruzione. Per poco non ci riesce: su un lancio in profondità del libero avversario, che miracolosamente pennella un passaggio all’ala destra, scattata in avanti, per evitare che il pallone giunga all’avversario, lanciato come una locomotiva verso il portiere, spicca un salto, aggiungendovi però una torsione del tronco che al momento dell’atterraggio gli fa perdere rovinosamente l’equilibrio, causandogli un’escoriazione dal gomito all’avambraccio con copiosa perdita di sangue. Si rialza, incurante del dolore, e si guarda indietro: la palla è stata deviata quel tanto da mandare fuori tempo l’avversario e, dopo un tre-quattro rimbalzi come una pallina del flipper tra gli stinchi e i polpacci di quest’ultimo, trotterella  in fallo laterale in favore della squadra di Claudio. A questo punto, Claudio guarda il braccio perché il bruciore ne richiama l’attenzione e il mister lo fa rientrare per le opportune medicazioni. Il papà lo aspetta a bordo campo per sincerarsi delle condizioni del figlio che ha scambiato il campo di calcio per una piscina dei tuffi olimpionici. Claudio lo rassicura che non è nulla – ma brucia come un tizzone ardente – perché è soddisfatto di avere fatto una cosa buona per la sua squadra.

Nel complesso, la prestazione di Claudio è opaca, la sua presenza in campo “trasparente”, nel senso che in campo o in panchina la differenza non si sarebbe notata.

Il momento della Grande Soddisfazione

Dopo la fine del torneo, con l’avvicinarsi della fine della scuola, anche quella del calcio volge al termine. Ma non è finita.

C’è l’esame finale.

L’esame finale consiste in una serie di prove atletiche, con e senza pallone, per verificare nella pratica tutti gli insegnamenti ricevuti durante la stagione.

L’esame viene svolto sotto l’attento sguardo del mister da due ragazzi alla volta: una sfida nella sfida, one-to-one.

Nel sorteggio, la sfiga si accanisce su Claudio: deve confrontarsi con il più forte di tutta la scuola-calcio.

L’avversario, perché non può definirsi un “compagno d’esame”, è un ragazzino con una lunga capigliatura alla Jim Morrison con un assoluto talento come il cantante dei The Doors. Lo sa e se la tira anche parecchio.

L’esame è un disastro su tutta la linea.  Scatti, slalom tra i paletti, la prova di palleggio e colpi di testa senza fare cadere la palla a terra fanno ripercorrere a Claudio le più grandi disfatte della Storia che tanto ama: Teutoburgo “Varo, rendimi le mie legioni!”, la carica dei Seicento a Balaklava, la carica della cavalleria polacca contro i tank tedeschi…Quando alla prova dei palleggi, Claudio non arriva a superare le dita di una mano mozza e l’avversario ne inanella un tale numero da dovergli sparare nelle gambe per fermarlo, è Canne. Anche i Romani furono presi da un tale turbamento    da pensare che fosse tutto perduto. Ma Claudio no.

Così, incassando un risultato tutto sommato prevedibile, i due ragazzi vengono accompagnati dal mister a fondo campo per l’ultima prova, la più importante: i tiri in porta.

Puoi avere i “piedi buoni”, fantasia e senso della posizione, pennellare lanci come il Pinturicchio del pallone, esibirti in dribbling ubriacanti, ma se non sai tirare in porta, non fai gol. Tutti i bambini del mondo immaginano sogni di gloria per una pedata a un pallone che finisce in rete. 

Quando si avvicina al dischetto del rigore, Claudio respira la stessa tensione di quei rigori che si calciano alla Finale di Coppa del Mondo.

In un rituale consolidato da partite e partite viste in Tv, Claudio si avvicina al pallone, lo tocca, lo sistema bene sul dischetto, lo fissa ancora per qualche istante, poi alza lo sguardo verso la porta. Immensa.

Immensa, ma sbagliare è incredibilmente facile. Prendere un palo o una traversa neanche con la mira di un cecchino uno riuscirebbe a centrarli. Eppure, quando meno te l’aspetti, il palo nega ogni sogno di gloria e ti fa sprofondare in uno sliding-door di “se” e “ma” che finiscono tutti nella stessa me…lma.

Claudio prende la rincorsa e….Goooool!

È il turno dell’avversario.

Stesso rituale, ma con un piglio di sicurezza palpabile.

Prende la rincorsa e…fuori. Il pallone va fuori.

Il mister assiste in silenzio.

È di nuovo il turno di Claudio. La prova consiste in cinque tiri.

Rincorsa e…Gol! Nel sette, preciso. Gonfia la rete in alto, come se il pallone volesse volare via, ma la rete invece lo “riprende” e lo sbatte di nuovo a terra.

L’avversario sempre con sicurezza affronta il secondo tiro. Sbaglia clamorosamente! Una ciabattata epocale. Un tiro che ci sarebbe potuto aspettare da Claudio.

Il mister sempre in silenzio.

Terzo tiro.

Claudio ha la sensazione di essere al Maracanà, sotto la propria curva e si è scatenato l’inferno senza che abbia dato il segnale. Il vociare degli altri ragazzi in allenamento lo fa ripiombare nel campetto in mezzo alla campagna di un paesino del Lazio.

Altra rincorsa, altro gol. Sotto la traversa.

PorcoDemonio! Ma questo è un cecchino del pallone. Al posto del piede ha un fucile di precisione!

L’avversario, a questo punto, sembra sentire la pressione. Anche perché il mister, sebbene ancora in silenzio, con il linguaggio naturale del corpo dà segni che qualcosa “(ri)bolle in pentola”.

Si avvicina al dischetto di rigore, questa volta senza quell’aria di sufficienza…spiana con la mano il terreno all’altezza del dischetto, vi posiziona amorevolmente il pallone, sembra volerlo coccolare con dei leggeri tocchi, vorrebbe quasi chiedergli scusa che sta per prenderlo a calci per ingraziarsene la traiettoria affinché finisca in rete.

Fa qualche passo indietro, rimira la porta, riguarda il pallone e parte come un treno….Sdeng! Traversa. Il pallone colpisce la parte alta della traversa e s’innalza nell’aria sparato sulla verticale come a Cape Canaveral l’Apollo 13 in missione per la Luna.

Roba da non credere…

Tre a zero.

E’ praticamente finita. Claudio ha vinto la prova più importante!

Il sosia di Jim Morrison, dopo avere seguito con lo sguardo la traiettoria del pallone laddove nessun pallone è mai giunto prima, fissa il terreno. Non ha il coraggio di guardare il mister.

Claudio non esulta. È freddo. Tranquillo. Non mostra segni di emozione. Il Maracanà, intanto, sta esplodendo.

I restanti due tiri potrei raccontarveli con dovizia di particolari, ma sarebbe un gratuito accanimento sul povero sosia di Jim Morrison che, ormai agli occhi del mister, è a malapena l’ombra di Pupo.

L’ultima prova finisce con un risultato impensabile: 5 – 0  per Claudio. Cinque capolavori di gol, che sono stati eseguiti “come da manuale” e un paio anche con ricercatezza dell’eleganza del gesto atletico e senso dello spettacolo.

Il mister non dice una parola a Claudio. Lo guarda con un’espressione di soddisfazione mista a “onore delle armi” per l’ultimo dei suoi giocatori, che ha lottato però fino alla fine.

Infine, esplode come un vulcano e investe l’altro ragazzo con una ramanzina che suona più o meno così: “ Neanche un gol! Neanche una volta hai preso la porta!… Vedi  lui – indica Claudio – te ne rifilati cinque, uno meglio dell’altro. E sai perché? Perché lui gioca con umiltà, concentrato. Umiltà e concentrazione. Ti ha dato una gran lezione: umiltà e concentrazione.”

La lezione di umiltà ci sta tutta. Se la merita perché l’altro ragazzo ha tradito lo spirito della scuola: non sentirsi primi, ma giocare con e per la squadra. Sentirsi forti perché siamo un gruppo, non sentirsi i più forti in mezzo al gruppo.

Sulla concentrazione, però, ho da dire la mia.

In realtà, Claudio aveva fatto propria la lezione di uno dei difensori più arcigni del Napoli, Giuseppe Bruscolotti: “Il culmine della scarpetta è la pOnta!”.

Che sia stato Bruscolotti a pronunciare questa frase non saprei, tuttavia era accreditata a Bruscolotti dai cugini con cui Claudio giocava a calcio quando andava in visita dei nonni a Napoli. Interi pomeriggi fino a sera a giocare a pallone…Ma questa è un’altra storia.

La frase è una sorta di codice, un “mantra” per indicare quando uno tira alla cieca, spazza in modo selvaggio, contro ogni eleganza di gesto atletico e con il pragmatico obiettivo di allontanare la palla dalla propria area.

Bruscolotti ne aveva fatto un’arte. Pertanto era stato eletto a maestro della sublime arte del tiro “a capa di cazzo”. Cosa che a Claudio riusciva naturalmente bene.

Ebbene, se aveste guardato bene Claudio mentre si allontanava dal pallone e prendeva la rincorsa, avreste notato che, appena poco prima di sferrare il calcio, aveva le palpebre serrate, occhi chiusi e vai di colpo di punta, goooooool!

Anche le schiappe vanno in paradiso.  

41 pensieri su “Album di figurine – Anche le schiappe vanno in Paradiso [Parte #2]

            1. Pare che abbia funzionato perché di dinosauri non ce n’è rimasto nemmeno uno. Pensa un po’: sterminati per una palla finita fuori campo dopo il tiro di un Dio Schiappa…Betelgeuse 1 – Terra 0. Partita di ritorno persa dalla Terra a tavolino per impraticabilità del campo.

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                1. Quando ce vo’ ce vo’! Se tiriamo su dei bambini che replicano i peggiori comportamenti degli adulti che futuro c’è per loro? Loro non ne hanno colpe, prendono esempio da noi adulti…Lo sport, il calcio è una cosa bella non dobbiamo permettere di rovinarla…e te lo dice uno con la maglietta con su il numero 666, l’Anticristo del calcio

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                    1. Se ti ostini a non tenere la distanza regolamentare in barriera…E ti poteva andare peggio: il pallone sembra essere attirato da suoi simili sferici più piccoli…Meglio il mal di stomaco 😉

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  1. Zeus

    Ma qua c’è la redenzione!! Io pensavo in cose turpi e invece mi tiri fuori il gioiello! Ci sta anche quello… vincere nel momento in cui tutti ti predicono la sconfitta.
    Non sarai mai IL CAMPIONE, ma per un giorno sarai ricordato come tale. Un giorno solo. Il resto è sudore, corsa, umiltà, abnegazione e calci sugli stinchi.

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    1. La schiappa è l’angelo portatore della redenzione ai superbi, agli arroganti, agli egoisti, ai sopraffattori. E l’angelo porta un segno per marcarli: una mano aperta con tutte e cinque le dita bene in mostra. Il segno del 5-0.
      E dopo ‘sto pippone biblico, ci sta il coro di tutti gli ottantamila al San Paolo:”Oje vita, oje vita mia! Oje core e chistu core, si’ stato o’primmo ammore e o’primmo e ll’urdemo sarraje pe’me!

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  2. Ricordo di un giorno, uno degli ultimi in cui giocai a calcetto da bambino, che, dopo una mischia furiosa sottoporta, vedendo tutti gli altri a terra, presi il pallone tra le mani: forse, qualche colpo mi aveva intontito, facendomi credere di essere io il portiere. Dunque la cosa finì con un rigore contro la mia squadra,,, Questo per dirti la visione del calcio che posso avere io: quella di una schiappa tra le peggiori schiappe. Dunque ho letto assai riconfortato dal tuo scrivere…..
    Un abbraccione…

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    1. Sei in ottima compagnia. Solo che la ribalta è sempre dei campioni, che in realtà non ne avrebbero bisogno perché già hanno ricevuto un dono rispetto agli altri. La mia si rifà più alla parabola del figliol prodigo. Quale gioia più grande per chi è una schiappa e riesce a fare una roba da campione?
      C’è molta più soddisfazione, l’effetto sorpresa e anche una piccola lezione per chi è ai massimi livelli. L’umiltà e’ un valore che non dovremmo mai sottovalutare. Almeno per me è sempre stato così e l’ho imparato sulla mia pelle. Non vi rinuncerei per niente al mondo, nemmeno per una coppa o una medaglia (che non ho mai vinto in vita mia)

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  3. Fantastico! Il passaggio alla “momenti di gloria”, alla “fuga per la vittoria”, alla… Sergio Leone, con tanto tempie imperlate di sudore è… fantastico. [non so com’è che stasera mi escono questi paragoni cinematografici, sarà la forza scenica del tuo narrare].
    Claudio è (sei) un grande personaggio. Umiltà e umanità. Sulla concentrazione chiudiamo gli occhi. Ma su quella della mente e del cinismo tattico, perché il cuore, quello lo sente battere in petto, in gola, nelle tempie e pure sugli spalti. No, non lo perde di vista quello.
    Una bella esperienza di vita. Di formazione. E mi è piaciuta la ramanzina. Lo dico da allenatore quale vorrei essere, ma non sono.
    Bel racconto, Red. Come sempre. Ti si legge d’un fiato e con il sorriso. Buoni sentimenti e buon cuore, mischiati a sana ironia, colorano e scaldano sempre la tua pagina.

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    1. Se ti paga mia moglie per dirmi queste cose esaltanti e così tenermi azzeccato allo schermo e non infastidirla, beh…Continua a prenderli e chiedi di più perché – diamine! – lo fai dannatamente bene.
      L’ultimo paragrafo mi dipinge come vorrei essere…M’inchino con rispetto e ringrazio il generoso pubblico.
      E jamme guagliù, facimme nata partita che stasera mi sento nu lione!
      Grazie ‘OnPaoloBellO…Mi mancavi. Bentornato.

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  4. Riccardo Giannini

    Stupendo Claudio, stupendo. Da appassionato di calcio questo post è da leggere e rileggere. Ma attenzione, non eri una schiappa. Magari eri meno dotato dal punto di vista tecnico, ma non sei stato messo a caso nel ruolo di mediano. Umiltà e concentrazione. Il mediano non deve avere tecnica sopraffina, deve giocare con intelligenza e dare una mano alla difesa. L’unico errore che facevi era correre un po’ “a vuoto”. Il mediano può toccare dieci palloni e fare comunque il suo compito.

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    1. Grazie per il supporto, anche se assai postumo, Rik. Il piccolo Claudio sta gongolando e il grande Claudio lo guarda dall’alto verso il basso come per dirgli “che ti avevo detto? Non era poi così male giocare a pallone”.
      Però, in tutta sincerità e senza alcun piagnisteo pro captatio benevolentiae, io a pallone ero e sono un’incommensurabile pippa!
      Il mio controllo di palla va oltre l’imbarazzante, pare che la palla sappia che non ho un piede dentro la scarpa, ma una banana.
      Se Ligabue mi avesse visto giocare, la famosa canzone non l’avrebbe mai scritta.
      Nella mia vita calcistica un paio di gol pesanti li ho fatti e i miei amici più cari se li ricordano come gli Ebrei ricordano il passaggio del Mare Rosso.
      Se ti interessa la mia “carriera” calcistica ci sono tre post scritti proprio alle origini di questa webbettola che potresti trovare di tuo interesse e, sopratutto, farti una buona risata.
      Batti un colpo se ti interessano e ti sparo i link

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