Batmancito [Ep.#8] – Un amaro ritorno


Mictlantecuhtli y Mictecacíhuatl, marito e moglie Dei della Morte. La dualità della Morte per gli Aztechi
Mictlantecuhtli y Mictecacíhuatl, marito e moglie Dei della Morte. La dualità della Morte nella mitologia azteca.

Da quando siamo tornati dalla giungla, dopo l’incontro con il “batmancito”, quel dannato pipistrello nel Tempio Perduto, Sergio non è stato più lo stesso. Inizio a pensare che non fosse un pipistrello…

Anche quando abbiamo rimesso piede a El BaVón Rojo, neanche l’accogliente atmosfera di varia umanità, alcol, fumo e legno di questo sgangherato comedor non ha sortito effetti su Sergio.

Avrei scommesso una discreta somma di denaro che  la strana coppia dei due soggettazzi titolari di cotanta dispensa di alcolicità, con i loro lazzi e frizzi, sarebbe riuscita a riportare alla “normalità” il mio compagno messicano di tante avventure e altrettante disavventure, ma l’avrei persa.

Dopo avermi salvato la vita da quei quattro figli di scimmia urlatrice schierati, armi in pugno, ad accogliermi fuori dal Tempio Perduto per fare della mia testa un’amena decorazione di uno tzompantli, Sergio non è stato più lo stesso.

Nel viaggio in canoa fino a Punta Allen, ha parlato in continuazione, praticamente da solo. Appena messo piede a terra è caduto in un silenzio tombale, una calma apparente che nasconde altro. Lo intravedo nei suoi occhi nei rari momenti in cui riesco a incrociare il suo sguardo. I suoi occhi neri, profondamente espressivi e nonostante il colore come una notte senza luna, hanno sempre brillato della bellezza di quello spirito puro che è Sergio; oggi sono neri e impenetrabili, come se un’ombra fosse calata oltre le sue pupille. Un’ombra che raffredda e immalinconisce come la nebbia il primo mattino nella distesa pianeggiante del Nord del Paese da cui vengo.

Durante tutto il giorno, Sergio evita tutti, sembra volersi tenere alla larga da tutti. Non parla con nessuno. Rimane rintanato nella sua stanza al piano superiore della locanda. Ho provato in tutti i modi e tutte le scuse per farlo uscire, mi sono inventato attività da fare, ma nulla. Il massimo risultato è stato quello di vedere spuntare una parte del suo viso dalla porta semi-chiusa e ricevere un diniego educato. Ormai, non apre più nemmeno quello spiraglio di porta, alle mie proposte risponde un secco “no” poi il silenzio. Mi meraviglia che non mi abbia mandato ancora a quel paese in malo modo, vista la mia insistenza.

Al tramonto, Sergio esce dalla stanza, ma continua a evitare tutti. A chi lo saluta ricambia in modo sbrigativo. Sergio è sempre stato un buon intrattenitore, amante della chiacchiera e  ha sempre tenuto ad avere un buon rapporto con il resto della varia umanità, anche quella più “avariata”. È un comportamento davvero inconsueto.

Si comporta in maniera sfuggente, come una persona che ha tante cose da fare in un tempo limitato, va di fretta e tutto il resto intorno diventa superfluo e d’intralcio. Quando provi ad avvicinarlo, sebbene abbia conservato la sua gentilezza, avverti nei suoi rifiuti, dinieghi e sforzati rimandi un’insofferenza inconsueta per questo piccolo grande uomo messicano, sempre disponibile ad ascoltare e pronto a farsi in quattro.

Lo confesso, ho provato a seguirlo quando di notte va in giro per la città, tutto indaffarato a procurarsi teli, tessuti, fili, cordame e altro materiale di cui non capisco l’utilizzo. Seguirlo è comunque impossibile: è un esperto di pedinamenti e conosce tutti i trucchi per fare perdere la sua traccia; io sono un gringo e sono riconoscibile tra queste quattro anime di messicani come un giglio di Sant’Antonio che spunta nel deserto.

Si muove per viuzze e vicoli, case e botteghe, come un pipistrello impazzito che ha perso il senso dell’orientamento, eppure ha un piano i cui pezzi sono per me come le dannate tessere di quella scatola di un puzzle, che ebbi regalato, dal titolo “Nel Blu dipinto di Blu”. Diecimila fottutissimi pezzi colorati di duecentocinquantasei sfumature di blu. Un’istigazione al suicidio per i daltonici. L’ho finito? Non l’ho nemmeno iniziato.

Perciò ho assoldato tre niños, particolarmente svegli e lesti di gambe, per tenerlo d’occhio e riferirmi i suoi movimenti. Tutto ciò che sono riuscito a ricostruire è che fa visita a diversi artigiani del luogo, anche di notte bussa alle loro case, ne viene fuori a volte con qualcosa in mano. La cosa più strana che ha acquistato – come se tutta la situazione fosse nella norma –  sono dei colori per tessuti, in particolare del colore “nero” ha fatto incetta, un certo numero di tele, pennelli, tavolozza, insomma l’occorrente per dipingere. Posso assicurare che Sergio sa muovere il machete come un pennello, come pure sono altrettanto sicuro che su una tela muove il pennello come un machete.

Sergio,  mi hermano qué pasa?

L’ultima volta che gli ho sentito fare un discorso è durante il viaggio di ritorno a Punta Allen. Ci ripenso più volte alla ricerca di un qualche elemento che mi faccia intravedere non dico una soluzione, ma da dove iniziare. Il viaggio di ritorno può essere ricordato solo per due motivi: i mosquitos e il monologo di Sergio.

I mosquitos mi hanno tormentato: millilitro a millilitro, mi hanno sottratto il vitale liquido ematico tanto che, se il viaggio fosse durato un altro paio di giorni, sarei morto per dissanguamento; era, invece, evidente che quei dannati insetti si tenessero alla larga dal mio unico compagno di canoa.

Sergio avrà pure evitato la malaria, ma è stato colpito da una forma fulminante di logorrea monotematica: la morte come rinascita.“Vita o morte è uguale, sai”  lo ha ripetuto 91 volte! Le ho contate. Novantuno come gli scalini del Tempio di Kukulkan a Chichén Itzá.

I suoi discorsi sulla morte per i Maya…

“La morte è sacra, un’antica consuetudine di certi rituali, oggi considerati brutali e primitivi, ma per i Maya era parte della vita quotidiana e, per certi versi, necessaria affinché la vita procedesse al meglio e la comunità venisse benedetta dagli Dei. Non che il popolo ne fosse felice, mi hermano, non ti dico questo, ma l’accettavano come segno di una lotta perché ci fosse un domani. E non parlo di un domani migliore, semplicemente che ci fosse “un” domani.

Vita o morte è uguale, sai.

Lo hai visto anche tu nelle iscrizioni del Tempio! L’Aquila è il Sole e lotta contro il Giaguaro e gli dei degli Inferi durante la Notte. Ha bisogno di sangue per essere più forte, per vincere contro il Giaguaro e così tornare a splendere sulla terra, fare crescere rigoglioso il mais e, con esso, garantire prosperità al nostro popolo che se ne nutre. Cosa rappresenta il sacrificio di alcuni individui di fronte al benessere di tutto il popolo! La loro morte è un nuovo inizio!

Vita o morte è uguale, sai.

Tu es un gringo, mi hermano, comprendo che ti è difficile capire che la morte va considerata come una chiusura con il passato, una cesura definitiva con certe vecchie, troppo radicate abitudini e comportamenti impossibili da cambiare. Ricorda: è l’unico modo per trasformarti in una persona molto migliore, una persona sempre consapevole della vita e della morte. Non è facile mi hermano, ma è l’unico modo per migliorarti. Vita o morte è uguale, sai”.

Se mi avesse fatto questo discorso qui, in questa cantina malfamata, che fa sembrare il peggiore bar di Caracas  un convento di suore Carmelitane scalze, avrei pensato che Sergio non regge quella mistura alcolica che l’Oste serve come acqua di fonte benedetta e chiama “Grog”, sebbene il mio compagno messicano abbia dato prova, in tutte le posade da  Oaxaca de Juárez a Punta Allen, di riuscire a ingurgitare senza alcun segno di cedimento un numero di mezcal e submarino davvero spropositato. Ho conosciuto Sergio proprio a Oaxaca in un pulcioso night club messicano frequentato da gringos e puttane.

Come mio solito, ero appollaiato su uno di quegli alti sgabelli al bancone, lo preferisco alle sedie anche se è di una rara scomodità. Da quella posizione riesco meglio a guardarmi intorno, le “antenne” drizzate e in ascolto, come l’aquila in circolo sul suo territorio, silente, le ali distese e immobili, in attesa della preda. Altro che reale rapace, altro che aquila! In quel periodo ero in uno stato da somigliare al meglio a un roditore di fogna; ogni volta che mi capitava di passare davanti a uno specchio, tale era l’immagine di straccio d’uomo che vi si rifletteva.

Avevo seguito una pista indicatami da fonte attendibilissima e data per “sicura al 100%”: un giovane e facoltoso americano, Samuel Armstrong, trasferitosi qui per fondare una sua hacienda specializzata in felci tropicali, di cui il territorio di Oaxaca è particolarmente ricco, con annessa la manifattura dei derivati di tali piante dalle proprietà protettive e terapeutiche. Alcuni campesinos, impiegati nella sua hacienda avevano trovato un antico manufatto, e l’avevano consegnato all’americano, che lo teneva come fermacarte in bella mostra sulla sua scrivania. La mia fonte, un importante commerciante nel campo dei profumi e dell’erboristeria nonché un appassionato di arte antica, durante una visita di lavoro all’hacienda, lo aveva avuto proprio sotto i suoi occhi per buone tre ore. Mentre era seduto alla scrivania a colloquio di affari con il giovane Samuel, aveva anche preso il manufatto tra le mani e l’aveva osservato da vicino. La sua descrizione per me fu una bomba: il mio sesto senso mi diceva che era proprio un tassello della mappa per El Dorado! E il mio sesto senso era quello che funziona decisamente meglio di tutti.

Arrivato a Oaxaca ho scoperto, invece, che l’americano era finito ben presto nelle grinfie del mafioso del luogo, il “rispettatissimo” e temutissimo El Huemac: alla proposta di una “protezione” non richiesta, l’americano aveva orgogliosamente risposto che non ne aveva bisogno, erano seguiti tre furti di autoveicoli, due incendi di capanni e, visto che l’americano non capiva gli “avvertimenti”, un paio di campesinos, impiegati come collaboratori di fiducia, erano stati ritrovati mancanti della testa nel giardino della sua lussuosa abitazione. Nei giorni seguenti, il resto dei campesinos si dissolse come il fumo di una sigaretta in una giornata di vento forte, la produzione cessò, le vendite si azzerarono, i debiti aumentarono. Alla “protezione” si aggiunsero i “modici” tassi di interesse per i prestiti che El Huemac generosamente offrì al gringo. Di lì a poco, l’americano svendette per una somma irrisoria l’hacienda. la villa e ogni suo possesso (incluso il manufatto antico) indovinate a chi?… Quel poco che gli era rimasto lo distribuì equamente tra  puttane, gioco e alcol. Finito l’ultimo dollaro, ora si procurava qualche pesos suonando in questo pulcioso night club come pianista. Il pianoforte aveva vissuto tante e sicuramente migliori stagioni. Ma l’americano lo suonava davvero di merda. “Sam, gli urlai, non suonarla più! Nemmeno per un’altra volta!”

Finisco quella frase senza nemmeno aspettare la reazione del pianista, vado per fare un sorso lungo dal bicchiere, ma è vuoto. Mi rivolgo al massiccio oste dietro al bancone con tutta la grazia e la cortesia che mi rimane poiché l’aspetto e la stazza mi dicono nel retro-cranio, ultimo baluardo di un pensiero consapevole, che l’oste ha trascorsi da carcerato e all’uopo, in uno schioccare di nacchere, può passare dal versare la tequila al versare il mio sangue e “stuzzichini” di mie frattaglie a guarnizione: “Por favor, amigo, es hora de llenar el tanque…Gracias!”

È in quel momento che è apparso Sergio, anche se in realtà eravamo seduti vicini e tra noi vi era la distanza solo di uno sgabello vuoto. Incrociamo gli sguardi e mi urla a sovrapporsi all’immane cacofonia del vociare del resto della “pregiata” clientela e di quel pianoforte pestato da una puzzola ferita e in calore: “Hola, gringo! Hai ragione, quell’altro gringo al pianoforte suona come un perro. Offro io! – fa un cenno all’oste – Bevi questa “nostra” sempre se ce la fai a reggerla…”

“Gracias, señor?…”

“ Me llamo Sergio”

“Gracias Sergio! Yo soy gringo ma nelle vene ho più tequila che sangue!”

Da quel momento non ci siamo più separati. Anzi, proprio a Oaxaca abbiamo iniziato a condividere le rogne in una serie di sfortunati eventi che farebbero impallidire lo stesso Lemony Snicket.

La nostra prima rogna, anche a ritornare a ritroso dopo tutte quelle che abbiamo passato, fu una faccenda davvero, davvero brutta. Tra una tequila e altri alcolici a caso, l’oste di questo pulcioso night club, che tutti chiamavano El Rifle (il Fucile) – cosa che confermò la mia prima impressione di un passato tormentato –  ci parlò di una certa Isela alla quale teneva particolarmente e che era scomparsa da un paio di giorni, una ragazza che lavorava nella sua locanda, cioè in realtà una prostituta…“Guagliù que pasa!?” irrompe nel continuum dei miei ricordi El Rojo, l’Oste mi sta sorridendo, mi ritrovo nella mano un bicchiere, il tempo di riavviarmi “avanti veloce” al tempo presente ed è colmo di quel liquido che lui chiama “nettare dei Pirati”.

Non so quanto ne ho bevuto da quando ho messo piede a El BaVón Rojo, ma il grog ancora non riesco a sorbirmelo con naturalezza. L’Oste lo ha capito e si diverte ogni volta a guardare la mia smorfia nascosta mentre il liquido scende lungo l’esofago, brucia lo stomaco e scartavetra le budella.

El Rojo si siede accanto, senza guardarmi, fa seguire a un sospiro una pacca poderosa sulla spalla che mi fa cadere quanto era rimasto del grog nel bicchiere dopo la prima lunga sorsata. Fa in tempo a stendere un braccio sul tavolo, prendere la bottiglia, versarne con un unico secco gesto una quantità esatta da riempire il bicchiere fino all’orlo, lanciare un urlo a Narciso “Narcì! Puort’o’ straccio!..”, beccarsi il consueto “vafanculo”-con-una-“effe” di rimando, prima di piantare i suoi scintillanti occhi verdi nei miei e proferire con tono che non accetta rifiuti la frase:”Así que te toca. Escúpelo! Mi hermano, racconta…”

Intanto Narciso ci ha raggiunto, non ha lo straccio con sé, ci avrei scommesso una discreta somma di denaro e questa volta l’avrei vinta. Si è messo nella sua posa tipica di gongolamento massimo: seduto sul tavolo, gambe penzoloni, che dondolano a ritmo della musica che in questa locanda non manca mai, lo sguardo beota con il naso all’insù,  un sorriso che deborda dagli angoli della labbra e finisce negli occhi in un’esplosione di vorace curiosità e voglia di scoprire.

Così inizio a sputare il fottuto rospo. Tanto lo so, anche se lo baciate, non diventerà mai un principe.

It’s sometimes just like sleeping
Curling up inside my private tortures
I nestle into pain
Hug suffering
Caress every ache

I play dead
It stops the hurting

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19 pensieri su “Batmancito [Ep.#8] – Un amaro ritorno

  1. Caspita quanto mistero aleggia intorno al tuo amico! Ho letto tutto il racconto d’un sorso. E’proprio vero che tutto il mondo è paese: a Oaxaca come a Catania o a Palermo, per non dire a Napoli o in Calabria…
    Te lo dicevo che mi mancavano i tuoi racconti del Bavonrojo… Grazie per avermene ammannito una dose generosa…
    Un caro saluto…

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    1. Il generoso sei sempre tu a volere impiegare il tuo tempo in questi racconti da comedor. È grazie ai tuoi commenti e quelli di altri che l’Oste tira fuori dalla cambusa il meglio che ha. Non è detto poi che sia buono eh…Ma il grog è proprio così.

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    1. Buon anno FaTati! Perché “ininziato”? Come sarebbe “già”? Narcì! Narciiiiiii! Narcisooooo!
      Per darti il bentornata ci scrivo su un “pezzo” al volo a quattro mani con Narciso. Alto contenuto di stupideria per strapparti un sorriso 😉

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      1. nel senso che ti faccio gli auguri non proprio allo scoccare della mezzanotte ( ma tanto io la zucca la mangio mica ci vado in giro! 😉 )
        Riapri le porte della bettola che c’è bisogno di fare casinooooo!
        ( grazie Oste, sei sempre prezioso)

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