Batmancito [Ep.#5] – Incontri


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Segue da Batmancito – El BaVón Rojo [Parte IV]

Varchiamo la soglia di El BaVón Rojo.

Dall’esterno si sente della musica di queste parti, un ritmo latino; appena messo piede all’interno, la musica cessa in un istante, come se fossimo entrati nell’esatto momento in cui il direttore impartisce all’orchestra l’ultimo gesto, ordinando a tutti gli strumentisti di cessare all’unisono.
Il mio grido “Hola, Oste!” risuona come l’ultimo accordo fortissimo nell’ultimo movimento della sinfonia: la bacchetta del direttore disegna nell’aria la traiettoria di un sasso in caduta libera, un movimento secco e deciso, dall’alto verso il basso, un brusco spostamento laterale del braccio, diretto verso l’orchestra, che si traduce in una reazione compatta degli strumentisti e in un accordo netto e preciso.

Il nostro campo visuale si sposta, al ralenti, ai lati, mettendo così a fuoco ciò che è presente a una certa distanza dal centro e succede che  iniziamo a renderci conto di che “musica” tira in questo locale.
Una folla variopinta, seduta ai tavoli o sugli alti sgabelli al bancone, si è girata nella nostra direzione, con un unico punto focale concentrato sull’entrata: Sergio e io sembriamo esserci finiti per caso nel mezzo.

Il nostro sguardo passa in rivista quella massa silenziosa di macchie di colore con un schizofrenico ritmo “avanti-veloce-stop-avanti-veloce-stop”, alla ricerca spasmodica del suo centro di gravità permanente: l’oste o uno dei suoi garzoni.

Steveme scarz’!’” risuona una voce nell’aria e rimette in moto la musica e il vociare nel locale, come un carillon cui è stata ridata la corda. Nessuno più fa a caso a noi. Il Tempo ritorna a scorrere secondo i secondi e i minuti convenzionalmente accetti: sessanta secondi, un minuto.
Questa frase, pronunciata in una lingua che, nell’intonazione, vagamente  ricorda lo spagnolo, proviene dal basso, dalla nostra destra: è uomo dall’età indecifrabile, ma non certo un ragazzo, anche se la sua bassa statura e aspetto potrebbero trarre in inganno: un viso da prendere a schiaffi e riempire di baci e pizzicotti, riccioli biondi ricadono con capricciosi boccoli sull’ovale del viso. Di carnagione quasi diafana; occhi apparentemente castani, ma con un guizzo verde-turchese dell’acqua di un cenote; labbra carnose, che sembrano opera di uno scultore classico dell’Antica Grecia. Il tipo ci squadra mentre passa davanti, recando un vassoio con una bottiglia e una selva di bicchieri tintinnanti, e sparisce tra i tavoli alla nostra sinistra.

“Scusate, Narciso ha sempre voglia di scherzare, ma ha una passione per i nuovi arrivati…A proposito, io sono l’oste, El Rojo, qui mi chiamano tutti così. Accomodatevi al bancone.”.

Un uomo di alta statura appare sulla nostra destra, non l’avevamo notato in quanto non veste come un oste, ovvero non ha nulla che potrebbe farti pensare al titolare della baracca: ha indosso una waikiki, una camicia hawaiana che profuma di terre lontane, maniche corte, collo piatto e aperto, colorate in tonalità solari e frizzanti,  stampate con motivi di cascate di foglie e fiori, che si mescolano ad animali e grafismi astratti ; in alcune ci puoi anche leggere una storia.

La camicia di El Rojo è rossa con una fantasia di pappagalli viola dal petto giallo e foglie di banano, identica alla famosa “Jungle Bird”  indossata da Tom Selleck in Magnum P.I. ; El Rojo ha una barba incolta, l’aria sorniona e trasandaticcia, sembra uscito da un film “hard boiled”, ma il paragone con Tom Selleck si ferma alla camicia. Tom  Selleck avrebbe potuto indossare anche una camicia di carta igienica e trasuderebbe più carisma e fascino di costui.

La camicia ricade ampia da spalle non grandi, talmente spiegazzata che sembra non avere mai incontrato un ferro da stiro; la sua parte terminale copre un palmo al di sotto la cintola un paio di braghe al ginocchio, ovvero un costume da bagno senza un contrassegno di una marca o accenno di stile, tanto che potrebbe essere scambiato per delle dozzinali mutande. Ai piedi un paio di infradito. L’aspetto trasandaticcio dell’oste è in sintonia con il resto del locale: guardando lo stato delle facciate esterne, si poteva capire chi fosse il “padrone” della baracca.

Lo seguiamo al bancone , prendiamo posto sugli alti sgabelli disposti in fila lungo tutta la sua lunghezza: ci posa davanti due bicchieri con sciatta pesantezza e vi versa del liquido senza interpellarci. Ci fa cenno di bere.

“Con la gola secca si parla male” aggiunge mentre si versa anche lui un’abbondante quantità di quel liquido in un boccale, di  fattura aliena a questo luogo: è un boccale di vetro spesso, di quelli usati in Germania per un litro di birra, un’etichetta stampata sopra e consunta non lascia dubbi: “Oktober Fest”.

Bevo il liquido facendolo fluire impetuosamente nella gola, sia per l’estrema arsura, sia per la confidenza dell’oste nel bere di gusto il liquido. Quando le papille gustative trasmettono al cervello è ormai troppo tardi. Chiudo gli occhi, le mascelle diventano tese come una corda di violino. Nello stomaco c’è la Rivoluzione Francese al suo clou più sanguinoso, con gli enzimi che esigono, strepitanti e rabbiosi, di fare rotolare la mia testa giù dal tronco, ghigliottina o ascia non importa.

Faccio appena in tempo a fermare ogni sinapsi verso i muscoli facciali onde evitare che tradiscano una smorfia di disgusto. L’oste continua a sorseggiare, soddisfatto, ci fissa con i suoi occhi verdi, che brillano della luce di chi si trova di fronte a un regalo inaspettato, a una sorpresa. Vi vedo lo stesso guizzo del nanerottolo biondo di poco fa. Forse c’è una parentela.

Ah esto está muy rico! Ci voleva proprio! – sfodero la migliore enfasi finta a mia disposizione e provo a cambiare discorso – Ma il…il…nan…Ehm…Narci…”

L’oste riprende subito la parola e mi toglie dall’imbarazzo:

“Narciso, il suo nome è Narciso.‘Nanerottolo’ pure va bene, io lo chiamo così, lui non si offende perché sostiene che viene dalla stirpe dei Nani di Moria. Scusatelo perché a volte è un po’ rude. Non ha filtri come i bambini, ma è un buon diavolo.”.

Mi schiarisco la voce e cerco di recuperare simulando altrettanto finto interesse:

“Ma è suo figlio?”

L’Oste inizia a ridere. Una risata fragorosa, che attira l’attenzione dei clienti più vicini, produce ampi sorrisi di grasso divertimento, si alzano mani a coprire la bocca per trattenere lo sbuffo di una risata sguaiata, un tam-tam contagioso di sorrisi e mezze-frasi, che finisce per ottenere lo stesso effetto ricevuto all’entrata: silenzio, vocio, silenzio, tutti gli occhi puntati su di me. Silenzio.

Cerco di incrociare lo sguardo di uno sconosciuto che possa accogliere il mio imbarazzo, confortare il mio disagio che sta salendo come il magma che risale lungo il camino principale del vulcano dopo eoni di pace al centro della Terra. Non trovo quello sguardo compassionevole, ma tutti gli altri trovano me: un’onda d’urto di una risata corale mi investe come un vento atomico, mentre per la vergogna mi auguro di diventare anche io, come quei disgraziati innocenti a Hiroshima e Nagasaki, un “ombra su un muro”.

L’oste, davanti a me, oltre il bancone, quasi collassa per le risate, tossisce per la saliva andata di storto e si tiene la pancia con le due mani per le forti contrazioni. Sulla destra, Narciso si dimena sul pavimento, ridendo come un posseduto, battendo i piedi e i pugni a terra.
Sergio, contagiato dalla risata generale, è evidentemente divertito, sebbene – come me – ignori il motivo di cotanta deflagrazione d’ilarità.  Prova, alquanto maldestramente, a trattenere la risata per non infierire troppo sul suo compagno, che in quel momento vorrebbe tanto tra le mani l’Arca dell’Alleanza e aprirla per scatenarne il suo devastante potere tra gli astanti. Costi quel che costi.

Power of The Ark (c) Ralph McQuarrie
Power of The Ark (c) Ralph McQuarrie

El Rojo, o come diavolo si chiama, si riprende dalla risata, versa ancora di quel liquido immondo nel suo boccale e fa altrettanto nel mio bicchiere fino all’orlo e oltre, facendone spargere una buona quantità su tutto il bancone.

Bevo tutto d’un fiato, questa volta ringraziando che esista questo fiele, chiudo gli occhi, mascelle tese.
“No” sentenzia l’oste, mentre asciuga il bancone con uno straccio liso, “Non è mio figlio, non sembra, ma o’ piccirillo…. – coglie un’esitazione nella mia espressione – Sì, insomma il piccolo, il nanerottolo non è un bambino. Ha la mia stessa età. Una vecchia, vecchissima conoscenza: è il mio socio.”

China gli occhi, si fruga addosso e un pacchetto sgualcito di sigarette appare nella sua mano, tirato fuori non si sa da quale anfratto della sua colorata mise, se lo porta alla bocca e, quando lo tira giù, appare una sigaretta appoggiata stancamente sulle labbra.

China di nuovo lo sguardo, tastando e frugando, alla ricerca di qualcosa che desidera disperatamente, ma che sembra perso altrettanto disperatamente. Sergio, con un rapido gesto, estrae il mio accendino dalla sua tasca e gli porge la fiamma salvifica di fronte alla sigaretta: il piccolo cilindro di carta e tabacco s’infiamma e una voluta di fumo nasconde per un attimo il viso di El Rojo.

Quando si dirada il fumo, El Rojo ha un largo sorriso stampigliato sulla faccia e le sue prime parole sono:

“Bell’accendino! L’ accendino di Adolf Galland, un grande pilota! Solo per questo motivo, la Casa vi offre da bere gratis per una settimana”.

Fa un cenno di ringraziamento con il capo a Sergio, lancia a caso lo straccio usato per pulire il bancone e che aveva poggiato sulla spalla, viene fuori dal bancone e si avvicina a me. È in un evidente stato di esaltazione ed euforia. Mi mette una mano sulla spalla e, bofonchiando con la sigaretta in bocca, mi fa:

“Ora venite con me, vi faccio conoscere gli altri amici. Mi casa es tu casa.”.

Con la mano tira via la sigaretta dalle labbra, sbuffa una densa voluta di fumo, si gira verso un gruppetto di musicisti sulla destra e gli urla: “Principe, suonaci quella della stella di mare e del caffè!”.

Gli risponde con un sorriso e un cenno del capo quello che deve essere il “Principe”: un tipetto esile, di colore, spalle e torso nudi in un modo volutamente fastidiosi, l’aspetto di un adolescente melodrammatico, che nasconde invece un consumato musicista, i capelli neri con un ciuffo ben pettinato, un fisico enigmatico, sfuggente come un fantasma, ma al contempo selvatico, cupo, sexy, emana un’aura messianica. Si muove intorno alla sua chitarra in un modo irresistibile, magnetico, disturbante a tratti, ma ipnotico.
Mentre il Principe intona i primi accordi, mi accorgo che sono seduto a un tavolo insieme ad altre persone, l’oste alla mia destra, Sergio alla mia sinistra e un paio di bottiglie di quello strano liquido, che “magicamente” in soli due bicchieri è passato da fiele, ora a nettare.
Allungo la mano e afferro una bottiglia, la giro sul lato dell’etichetta e leggo:

GROG. Reserva Especial
por la cantina “El BaVón Rojo”

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Onda sonora consigliata: Starfish & Coffee di Prince

 

35 pensieri su “Batmancito [Ep.#5] – Incontri

            1. Vincente mica tanto…
              Magnum PI è un veterano del Vietnam e tutto si può dire che siano personaggi “vincenti” e nemmeno nella realtà storica. L’opinione pubblica americana ha faticato parecchio per accettare i reduci di quella guerra, che al ritorno in patria furono messi da parte come una carta sporca. “Nato il 4 luglio” con Tom Cruise è uno dei tanti film che denuncia a posteriori questo passaggio storico. Lo stesso Selleck è uno degli attori più sottovalutati del cinema di quegli anni: scelto per interpretare Indiana Jones, Lucas preferì HArrison Ford. Che Selleck fosse adatto a tale ruolo si vede anche nell’godibile clone di Indy, Avventurieri ai confini del mondo. Ha interpretato alcune ottime pellicole coem Runaway e Un uomo innocente; Carabina Quigley è un peculiare western ambientatto in Australia e un paio di commedie come In & Out e Tre scapoli e un bebè. Questo per dirti che, come carriera, nella realtà non è che sia stato così vincente.
              Infine, Magnum PI va letto in chiave hard boiled in un’ambientazione paradisiaca come l’isola di Ohau e in mezzo al lusso, di cui però il personaggio è solo ospite; lo scrittore che ospita Magnum nella sua proprietà e che non è mai inquadrato, doveva essere interpretato Orson Welles, ma sopravvenne la sua morte. Io in MAgnum PI leggo tante sfumature di questo personaggio e attore. Lo adoro per questa atmosfera hard boiled in salsa moderna che si porta appresso, sia nella vita sia sulla scena.

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  1. Ola amigo que tal, estàs borracho?… Che ridere, mi sono immaginato la scena in una di quelle cantine malfamate del Messico profondo. Uno di quei posti in cui non disturba nemmeno vedere passare una pertica, con tanto di sombrero che pare una padella, scaracchiante più che una metralladora…

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    1. Hola compadre! Lo reggo bene l’alcol virtuale e ci hai preso con la cantina malfamata, che fa sembrare un convento di suore Carmelitane il peggior bar di Caracas! Nell’economia del racconto, la cantina stride con l’esterno paradisiaco del Mare dei Caraibi, non sono importanti le quattro mura e le suppellettili, ma chi anima quel luogo. Per ora hai conosciuto la strana coppia dei soci della locanda, sgangherata proprio come i due soggettazzi titolari di cotanta dispensa di alcolicità, alla prossima conoscerai la varia umanità che frequenta la bettola. E avrai una sorpresa che spero ti piacerà….

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      1. Evidentemente da quelle parti abbondano certi tipologie di osti:sai che il tuo mi ricorda il padrone italiano di una pizzeria a Playa del Carmen?Ci ho lavorato per qualche tempo e ti posso giurare che non ci si annoiava. Ogni sera c’era una rissa fcon tavoli e sedie volanti,bottiglie spezzate ed assalti all’arma bianca.Alla fine ho preferito tagliare la corda per non finire infilzato allo spiedo… Come vedi mi ravvivi ricordi abbastanza movimentati…

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        1. Diamine, mi manca questo localino ben frequentato! Esplorammo anche un po’ all’interno Playa (oltre la turistica Quinta Avenida e all’epoca era solo quella zona turistica). in effetti, in alcuni frangenti, non dava questo senso di sicurezza. Ricordo che quando andammo in banca a ritirare del contante, rimasi impressionato dalla sicurezza: due guardie in assetto di guerra cone un fucile a pompa come quelli che si vedono nelle serie TV americane.
          Ma come mai c’erano queste risse? Semplice sbronza o roba più interessante di donne? Dai, racconta, racconta.

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          1. Mi pare che si chiamasse “Xcarett”, come il cenote che c’era da quelle parti.
            L’aveva aperto un italiano che era appena scappato dalla Germania,dove aveva anche lì un ristorante. Ma che aveva dovuto chiudere perchè, in via di separazione dalla moglie tedesca,sosteneva che gli avrebbe portato via anche le mutande. Non so come abbia fatto a scapparsene.Però sta di fatto che arrivò in Messico e subito aprì quel ristorante pizzeria. Ogni sera c’era sempre qualcosa per cui fare a botte: un giorno perchè un gringo americano ubriaco interloquiva con due muchachos mexicanos muy nerviosos. Loro parlavano di come il Messico fosse sfruttato dagli yankees e lui sosteneva che il Messico era el pays de l’amor y tequila. Loro gli hanno rovesiato il tavolo in faccia con piatti e bicchieri, spezzando bottiglie per fargli qualche ricamino. Fortuna che li hanno fermati. Il gringo insisteva a dire che non comprendeva: que pasò, insisteva a dire. Altr volte erano pescatori che alzavano il gomito e poi tiravano tavoli e sedie. Forse gelosi del mio amico e del suo ristorante. Poi una specie di bruja che ,una sera, quasi tirò in faccia un bicchiere di vetro al bambino di una coppia di americani. La cosa più inquietante fu che, col rumore del bicchiere che si rompeva, si udì un tuono pazzesco e si scatenò una tempesta di quelle pazzesche… Insomma, non ci si annoiava … Ai tempi non c’era ancora una banca a Playa e c’era la spiaggia lunghissima coronata da palme. Cosa che, tornando a distanza di neanche due anni, non esisteva più: le palme erano state distrutte da un virus che, si diceva, fosse stato usato dalla Cia per distruggere Cuba. E che avesse finito per devastare anche le altre coste dei paesi caribegni: vero o falso, sta di fatto che gli USA hanno provato l’impossibile contro la Cuba di Castro…
            In definitiva, abbandonai il mio lavoro perchè cominciai a temere che, lavorando io, rubavo il posto a qualche messicano. Mi vennero i sensi di colpa e me ne andai. Ma non da pLaya, dove rimasi ancora un po’di giorni, abitando presso las cabagnas che c’erano proprio sulla spiaggia…

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            1. Io dico sempre che la realtà supera l’immaginazione e il tuo racconto di vita fa impallidire quelle quattro frasi in croce che ho faticato a mettere insieme. Grazie, è stato come esserci. Certo che con certi turisti verrebbe da tirargli il tavolo appresso!

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              1. Anche le tue esperienze sono assai interessanti, tutte le esperienze sono interessanti. Anche perchè non si finisce mai di imparare e conoscere. Infatti, leggendoti, sto conoscendo aspetti e luoghi che a me erano sfuggiti a suo tempo… Per quanto riguarda il gringo e i due messicani, credo che, fosse stato più sobrio, ci avrebbero pensato due volte prima di saltargli addosso…

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                  1. Ci serve tutto, nella vita, amigo… Però i viaggi hanno qualcosa di particolare da insegnarci. Qualcosa che i libri non hanno. E credo che possa dirsi esperienza personale, diretta, dolente o piacente. Ma come ben rilevi tu: lo studio conta, soprattutto per non farsi trovare del tutto sprovveduti…

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                    1. Ciao amigo! Le tue parole mi hanno ricordato quanto scrissi del “viaggio”, del “viaggiare”, prendendo spunto da un’angolazione non ortodossa per molti, ma per me quasi naturale: un videogioco dal titolo “Journey”.
                      La citazione d’inizio articolo è una che ripeto alla nausea:“Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone” (cfr.”Viaggio con Charley” di John Ernst Steinbeck)
                      Mi riconosco molto in quello che dici e ciò che scrissi all’epoca sembra incastrarsi come un tassello che finalmente trova un corretto posto nel collage:
                      i viaggi di solito mi hanno lasciato, non solo un segno indelebile nella memoria, ma hanno nutrito il mio pensiero e riscaldato il cuore. Quando un viaggio è stato tale, mi sento cambiato, diverso da prima, forse migliore, sicuramente con qualcosa in più da trasmettere. L’esemplificazione può essere in un evento che a tutti, viaggiando, sarà capitato: quando t’imbatti in un altro viaggiatore, sconosciuto, dopo il primo scambio di battute, scoprite di avere in comune un tratto del vostro itinerario; senza nemmeno accorgervene e senza sapere chi è, il solo fatto di potere condividere le esperienze risveglia entusiasmo, desiderio di conoscere, rivitalizza le aspettative e le speranze. Il viaggio nel suo complesso agisce sulle nostre vite, una volta rientrati nella routine, proprio come questo incontro con uno sconosciuto con cui abbiamo fatto un pezzo di strada.
                      Probabilmente i videogiochi non ti interessano, ma visto che Journey è solo una scusa per parlare del “viaggiare” da un punto di vista diverso (ma non molto da quello di un libro o un film), forse potrà farti piacere leggere il post:
                      Life is (a) Journey

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                    2. In effetti non ci muoio dietro ai videogiochi,anche perchè con le mani sono assai imbranato: le dita vanno per conto loro, intrecciandosi ed aggrumandosi peggio che quelle d’un polipo. Però mi piace questo tuo parlare di viaggi e del senso del viaggiare… Adesso vengo a leggere il post…

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        1. mamma d’a saletta tiZ, quant’è bella sta canzone…N’a cunuscive. Troppobbbella. E tutta per me, poi. Uaneme!
          Narciso si è messo nella sua posa tipica di gongolamento massimo: seduto sul tavolo, gambe penzoloni, che dondolano a ritmo di musica, lo sguardo beota con il naso all’insu’ e un sorriso che deborda dagli angoli della labbra e finisce negli occhi in un’esplosione di pace.
          …. ….

          Mi ha allungato una moneta…le vecchie duecentolire…
          ….Narcì c’aggà fa cu’ sto dobbblOne del tesoro del Pirata Nonna Abelarda?
          … …
          tiZ, mi ha dettto di metterlo nel juke-box e mettere su un’altra camzone che ci è piaciuto assaje…vedi che puoi fare, non mi sento di dirgli che le duecentolire nun s’ausano cchiù

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          1. Narciso: la parte più bella di noi…quella che ancora si stupisce, che tutto può cambiare, che meraviglia, che scoperta, che le piccole cose sono le più preziose…speranza di un divenire tutto da vivere…con gli occhi fermi su un azzurro mare pieno di scoperte, di storie nuove da raccontare, di non demordere, di oggi è così. .. domani andrà meglio. … un dobblone ogni sera… ecco cosa ci vuole. .

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  2. Zeus

    Mi piace questo locale. Ha un buon ritmo, personaggi che sanno il fatto loro e, soprattutto, ha storie da raccontare. Perché un buon pub/una buona locanda o qualsiasi posto dove la gente si incontra è tale (buono), se ci sono storie da raccontare e se ci sono aneddoti da ascoltare.
    Se non c’è niente di tutto questo, non ha anima.
    E poi il Grog, lo si sa, bisogna berlo velocemente se no corrode il metallo ehehe.

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    1. Grazie Sua DiVINIta’! La prossima sarà dura, i personaggi ce li ho, ma incastrarli in questa cornice sarà dura. Il tuo commento è un bel boccale di grog buttato giù nel gargarozzo, tracimando dal lati della bocca e inzuppando la waikiki! Grazie.

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