Harry ti presento Claudio


Pitfall

Al mio amico Luca e a tutti quelli che quando sentono il nome “Harry”, rispondono “Pitfall” e mandano a ramengo Sally.

Era un’estate come questa. Stessa spiaggia, stesso mare, a mostrare le chiappe chiare.
La mattina ritrovarci in spiaggia, a fare il bagno, sbattersi appresso a un pallone, che era attirato dalla signora scorbutica distesa a prendere il sole come un missile a guida a infrarossi dal calore del post-bruciatore di un jet.

Fortunati ad abitare a seicento metri dal mare, una passeggiata terrificante sotto il sole alle due di pomeriggio o una salutare discesa libera in bicicletta (all’andata però c’era da affrontare la Salita del Diavolo) ed eravamo a casa a consumare il rito del pranzo, che d’estate è per forza frugale.

Le mamme hanno sicuramente i super-poteri: prevedono pioggia a catinelle quando in cielo non c’è una nuvola e tu esci in motorino senza curartene (“Hai preso l’ombrello?” non è una domanda, è un avvertimento); sgamano qualche marachella o segreto (che hai confessato solo all’amico del cuore, che poi l’ha detto al suo amico del cuore e così via a tutto il cucuzzaro); predicono il tuo futuro lontano e, quando avrai la loro stessa età in cui avevano fatto tale predizione, non puoi che ammettere e stupirti di quanto ci avessero preso pieno, come il missile a guida a infrarossi che ha seguito il calore fin dentro il post-bruciatore di un jet. Bandit down! Bandit down!

Le mamme, però, non hanno il super-potere dell’ubiquità: quindi, se sono al mare a cercare un po’ di meritato relax, ma sempre con il terzo occhio all’erta, non possono essere in cucina a preparare pranzi secondo lo standard invernale.

In realtà, la mia mamma deve avere un super-potere non ancora omologato e – si sa – quando non è riconosciuto dalla comunità scientifica (Galileo docet…) si tratta di pericolosa stregoneria o miracolo buono solo per i fessi creduloni. Fatto sta che i pranzi estivi erano tutto fuorché “frugali”.

Fine ultimo della mamma era di fiaccare la nostra vivacità e, grazie a tale peso sullo stomaco, infondere in noi pargoli un lento venire meno delle forze fino a sprofondare nel sonno pomeridiano, come prescritto da qualche “Bon-Ton Quattro Stagioni del Bravo-Bambino”.

Era il 1984.


Era un’estate come questa. Stessa casa del mare, stessi pomeriggi torridi, satolli da sentire i sensi di colpa per la Fame nel Mondo e riversi su sdraio, letti, divano o, il più ambito da tutti, il dondolo.
Un dondolo che ha passato di sicuro il mezzo secolo, c’era quando la casa è stata costruita, c’era forse anche prima. Il dondolo di Sabaudia è LA casa: è lo spirito di quella casa. È lo spirito di noi bambini, cresciuti in quel giardino, sciamanti nudi tra gli schizzi del tubo dell’acqua caduto in mano al più lesto di noi; è lo spirito dei nostri genitori che ci guardavano da lontano, mentre avevamo le prime turbe con la ragazzina di qualche casa più in là; è il sonno di mio padre, che come un bimbo si faceva cullare durante quei pomeriggi; è il sonno di mio fratello; è il sonno di mia sorell(in)a. Non è il mio sonno.
La mia missione estiva era stabilita dal mio D.N.A.: non dormire mai il pomeriggio.

Era l’estate del 1984.
Avevo da poco conosciuto Luca, che è uno dei miei più cari amici ancora oggi.
Un pomeriggio di questi torridi, con un concerto di cicale permanente, odore di resina di pini e resistenza all’ultima palpebra al sonno, Luca si presenta al cancello di casa. Il dondolo è posto di fronte al cancello e quel giorno ero io ad avere conquistato la più preziosa area strategica della casa (la modalità “Capture the flag” a casa nostra è nota da molto prima dell’avvento dei videogiochi in Rete)

Molto educatamente, Luca fa un sussurro per chiamarmi. Non ce n’è bisogno: sono sveglio, anche perché le cicale sono in una “jam session” da fare impallidire i Mostri Sacri del Jazz.

Cinque minuti dopo, Luca e io siamo sulla strada in direzione di casa sua. Duecento metri lungo la strada, una volta bianca e con quattro case inclusa la mia, oggi asfaltata e circondata ai due lati da una fila senza soluzione di continuità di case a due piani e giardini, giardini e case a due piani.
Non posso più girare nudo per il giardino e, diciamolo, è da parecchio che ho perso quest’abitudine “figlia dei fiori”; ho, tuttavia, acquisito un numero di compagni di baldoria estiva che in precedenza erano pari a zero: per avere un po’ di compagnia dovevamo “importarla” da Napoli, invitando i miei cari cuginetti. Che estati, ragazzi! Ma questa – come recita la voce fuori campo alla fine del film “Conan Il Barbaro” – è un’altra storia.

A casa di Luca, c’è un tesoro che è assimilabile a quello custodito dal drago Smaug nella storia de “Lo Hobbit”. Luca ha a casa una console di videogiochi: l’Intellivision della Mattel Electronics.

Anche io ho la stessa console o, meglio, è di mio fratello, ricevuta in regalo qualche Natale prima. Sarà stato il 1983. Ancora mi chiedo oggi cosa ebbi io regalato quel Natale? Non lo ricordo, eppure i miei genitori erano salomonici nei regali. Quel regalo a mio fratello fu talmente meraviglioso che ha annichilito quella parte della mia memoria. Ricordo solo che mio padre lo andò a comprare in gran segreto insieme al mio caro zio Gennarino: tornarono entrambi trionfanti da Piazza Mercato con due scatole diverse, un Intellivision per mio fratello e un Commodore VIC-20 per il mio amatissimo cugino Valentino.

Per questa console, dato l’alto costo dei videogiochi (le “cassette” come da noi le chiamavamo), ne abbiamo solo 4, praticamente  poco più dei 3 giochi ricevuti “in regalo” con l’acquisto della console, cioè il gioco del calcio (NASL Soccer) , il gioco del Blekggiék (Las Vegas Poker & Black Jack) e Lock’n’Chase, una sorta di poco politicamente corretto Pac Man con le guardie al posto dei fantasmi e un ladro, nostro alter ego virtuale, al posto di Pac Man.
A questo trio di base, si è aggiunta una cassetta che mi ha segnato Advanced Dungeons & Dragons e la storia la potete leggere in Non ho paura…dei draghi.

Non so per quale “Bon-Ton Quattro Stagioni del Bravo-Bambino” in vigore almeno a casa mia, portare la console a casa al mare era fuori discussione, nel senso letterale del termine: mio fratello ed io lo sapevamo e ci avevamo messo la classica croce sopra.

Non che ci fossero le balzane “crociate” contro i “vidiogheims” del giorno d’oggi, arricchite  – come ogni “crociata” che si rispetti – di panzane di rito e mostri da sbattere al rogo o in prima pagina (cambiano i metodi della gogna); i videogiochi erano semplicemente una lontana eco proveniente dal futuro. Quindi, l’ostracismo dei nostri genitori non era rivolto nello specifico del “videogioco”, bensì era frutto di volerci abituare a un insieme di regole, a volte applicate inerzialmente alla nostra sfera di attività. Papà era al lavoro, mamma da sola con noi due figli, senza automobile, senza telefono, nel nulla dell’Agro Pontino a due chilometri dalla cittadina più vicina e seicento metri dal mare, nel mezzo una caserma della “Contraerea”: il sistema di regole serviva per fare funzionare il tutto, serviva per responsabilizzarci.

Invero, mio fratello e io non mostravamo nessun segno di video-tossico-dipendenza: all’epoca la TV a casa al mare, quella “piccola” portata rigorosamente nel trasloco estivo di masserizie, era ritenuta da noi essenziale solo per vedere Giochi Senza Frontiere.

Luca deve farmi vedere un gioco nuovo, un gioco eccezionale, uno di quelli che devi raccogliere la mascella in terra e quando l’hai recuperata continui a balbettare tra te e te, come se Cthulhu in mostruosa persona si sia palesato alla porta di casa tua, chiedendoti se hai un po’ di zucchero da prestargli. “Non è possibile! Non è possibile!”.

Entriamo a casa, facendo attenzione a non fare rumore. Al piano di sopra, i suoi genitori e la sorellina riposano. Luca è amico mio anche perché è un altro che si è ribellato al fottuto Bon-Ton dei pomeriggi estivi.

Accende la TV, accende la console. Non faccio in tempo a vedere la scritta stampata sull’estremità della cassetta, già inserita nell’apposito alloggiamento laterale e che sporge all’esterno per circa un terzo della sua lunghezza, quando appare la schermata!

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Pitfall!

Harry Pitfall è il nome di quello sprite, “spiritello” nella sua traduzione che rende giustizia a quello che per noi del 1968 e dintorni appare come una vera e propria magia miracolosa, un incantesimo che ci lega un tutt’uno con il tubo catodico e tutto ciò che possa esservi contenuto. Stregoneria di sicuro!

Pitfall! è già dall’anno scorso un enorme successo sull’Atari VCS (4 milioni di copie vendute in un mercato che non era così diffuso come oggi), è stato sviluppato da David Crane e pubblicato da Activision, allora come oggi (fusa con Blizzard) un colosso dei Videogiochi.

In quattro Kbyte David Crane è riuscito con circa mille ore di lavoro a creare un mondo che sta alla storia dei Videogiochi come Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta, uscito nelle sale appena l’anno prima, sta alla storia del Cinema.
Il gioco, tecnicamente, su Atari VCS è già un miracolo; su Intellivision, console decisamente più performante (non lo dite agli Ataristi, però), è la Rivelazione del Quarto Segreto di Fatima. E’ il sogno bagnato di un qualunque gamer casalingo di quegli anni, che rincorreva la perfezione dei “cabinati” come una chimera impossibile (oggi siamo ben oltre).
Duecentocinquantasei “quadri”, che occupano in totale la micragna di 50 byte (lo introdurrei come test alle facoltà di Informatica…), zeppi di trappole e infamità tipiche della programmazione dell’epoca e perfette per destare nel giovanissimo videogiocatore il senso di “meraviglia” (“awe” gli inglesi direbbero con una sfumatura più precisa).
Harry Pitfall, animato in maniera impeccabile, realizzato in più colori, esente da qualsiasi sfarfallio o tentennamento del frame-rate, doveva avventurarsi per 256 quadri disposti su un piano bidimensionale, entrando da sinistra e trovando la temporanea salvezza uscendo sulla destra dello schermo. L’immagine icona di Harry è quella presente sulla confezione del videogioco: appeso a una liana, dondolandosi oltre l’altra sponda di una fossa d’acqua piena di coccodrilli.

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Luca e io abbiamo giocato diversi pomeriggi estivi a quel gioco delle meraviglie, dell’avventura, tra la vita e la morte (dello sprite): ogni quadro superato era una vittoria per entrambi, ogni vita perduta di Harry la frustrazione di un “trial and error” di tipo fertile: l’errore stimola la creatività per non ripeterlo e – in quel videogioco – essere Harry e spingerlo qualche “quadro” più avanti.
Non abbiamo finito i 256 quadri, i giochi dell’epoca sapevano essere bastardi con esponente logaritmico e i pad dell’Intellivision erano l’esatto opposto dell’ergonomia: il disco per mezzo del quale si imprime la direzione è precario e impreciso quanto una camminata su tacco 14 su un pavimento bagnato di acqua saponata; i tasti, una vera e propria prova per un polpo, sia per numero, sia per disposizione sia per resistenza, richiedono di imprimere una certa forza. Dice il vecchio sag…il vecchio e basta:”Altro che Dark Soul!

Provai anche a squagliare una penna Bic, modellandone un’estremità piatta e delle dimensioni del disco del pad dell’Intellivision, vi applicai del nastro biadesivo così da simulare un joystick come quelli in dotazione all’Atari: il risultato fu un controllo ancora più impreciso e “scattoso”, che finì ancora più malamente quando, costretto a rimuovere tale orrida e insoddisfacente “protesi”, portai via parte del rivestimento in pellicola del disco. Ho ancora l’Intellivision e ogni volta che guardo il joypad “sfigurato”, mi ricordo della mia oggettiva difficoltà a opporre indice e pollice.

Luca mi presentò Harry e, da allora, siamo stati compagni di tutte le estati e, da quando sono a Roma, anche le altre stagioni. Abbiamo provato a emulare le gesta di Harry con un Commodore 64: io addetto alla grafica, Alessandro alla programmazione, Luca al design dei livelli e ci metteva il “capitale”, cioè Il Commodore 64 con il disk drive!

Più tardi abbiamo percorso le gesta dello sprite di Advanced Dungeons & Dragons con quella scatola rossa delle meraviglie che Luca, con suo papà, mi portarono un giorno d’estate sempre davanti a quel cancello: una scatola con l’immagine di un drago, il primo set di Dungeons & Dragons.

Harry è stato un gran piacere averti conosciuto.

9 pensieri su “Harry ti presento Claudio

    1. Ciofeca? Eresia! Blasfemo! 😉 Scherzo, in verità sai quanto ho ritenuto un’inutile cassetta quel Las Vegas Poker & Blackjack? C’erano dei giochi fantastici e noi ci ritrovavamo con questa inutile cassetta noiosamente “da grandi”.
      Eppure, con il tempo e la scarsezza di “mezzi”, di partite a Blackjack e Poker con mio fratello ne abbiamo fatte! Ho imparato i rudimenti del Blackjack proprio su Intellivision.
      Qualche tempo fa ho acquistato una console plug&play che replica l’Intellivision e diverse decine di giochi, tra cui cassette desiderate e mai avute, nonché dei grandi classici. In questo bengodi a oltre 30 anni di distanza, c’è anche il “gioco delle carte”. Mio fratello ed io ci siamo messi, fianco a fianco, e riprovato a giocarci. È stato impressionante il salto nei ricordi, tangibile, quei clic del mazziere e il flip delle carte: eravamo sempre mio fratello ed io, sempre quei bambini, ma oggi cresciuti. Ancora insieme.
      Beh penso sia questo il vero tesoro di Harry e tanti altri.
      Grazie di avermi dato l’occasione di raccontarlo e…a quando una delle tue creazioni con Harry o qualche altro nostro beniamino in pixel?

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          1. Però nei vintage…..
            Sai il gioco del domino ?
            Sai quando una tessera ne butta giù un altra ?
            Mi hai fatto ricordare che…..
            No, non te lo dico ora….
            Ma primo o poi quell’antico pupazzovo lo dovrò tirar fuori dal mare dei ricordi e publicarlo….
            Un saluto

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    1. Grazie per il supporto;) La lotta all’epoca era da Davide contro Golia, Leonida contro i Persiani…E oggi viene replicata con i miei due nanerottoli di 5 anni…Uno dei due gemelli è restio quanto me.
      Se ti va di sapere di più di questa casa, batti un colpo che c’è dell’altro. Hai scritto bene: è un simbolo. Forte. Eroicamente a cui aggrapparsi nei momenti più difficili. Lo stendardo che non deve mai cadere nelle mani del nemico.

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  1. Quando allora si partiva per la casa al mare per tre mesi ( 3mesi????) E ti abbronzavi come non ti è mai più capitato nella vita! La voce di mamma fuori al giardino : oggi cucino leggero ! e ‘aropp nun te alzavi da terra manco a pagare trascinandosi miseramente fino al letto. Lenzuola che odoravano di mare, di pigne e pineta. E via di bici alle cinque a correre verso il mare.
    Parola d’ordine staccare dal quotidiano, niente tv( che poi lì nonprendeva mai!) , niente videogiochi, aria, bici e conchiglie.

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