Lasciatemi scrivere. Sono un italiano vero e…precario


precario

Carattere Times New Roman 10. Titolo: non ce n’è. Non mi sovviene al momento, ma tant’è che ce ne voglia uno. Mi verrà scrivendo…chissammaichilosà. E’ la solita storia dell’uovo e della gallina, viene prima il contenuto o il titolo? E il sottotitolo di chi è figlio?

Poco importa visto che si tratta di un’unione in cui ogni parte contribuisce al bene della “famiglia” di lettere, spazi e punteggiatura seminata a spaglio.

Primo pomeriggio – sonnacchioso – di sabato antivigilia di OgniSsanti o anche vigilia di Halloween, l’ennesima rapina di festa europea a opera degli yankees, che adesso ci propinano come moda commerciale. Tempo di streghe, fantasmi e spiritelli, noi a Napoli abbiamo i monacielli. Alla faccia della globbbalizzzazione. Cambio carattere che me sto a cecà. Dodici e pure Arial.

Caffettino e sigaretta. Una tiratina. Goffa. Ho praticamente aspirato tutto il fumo con l’occhio sinistro! I polmoni  ringraziano. Non sono un fumatore o meglio, lo sono occasionalmente. E questa è una di quelle “occasioni”. Ultima sigaretta del pacchettino da 10 acquistato appositamente per gestire lo stress da bilancio di previsione, il “budget” secondo la moderna moda di spalmare l’inglese per dare un tono a ciò che si dice. In realtà, “budget” è la parola che preferisco. Per vigliaccheria. Bilancio di “previsione” per l’anno che verrà, ma che con molta probabilità io non vedrò in questa azienda perchè io sono un lavoratore figlio di questo tempo: un precario.

Macino e analizzo dati, trend, tabelle, percentuali, delta, incrocio “pivot” con la stessa velocità, confidenza e non-chalance dellla mamma quando incrociava i ferri nei suoi lavori a maglia. Quei pomeriggi passati davanti a lei, le mie braccia distese verso di lei a sostenere la matassa, cercando il giusto equilibrio, nè troppo tesa nè troppo lasca. Ipnotizzato da quei gesti recursivi e rituali, quel movimento sincopato di minuetto ticchettante dello sferruzzare: in battere, ferro contro ferro, in levare, ferro sulla lana. La nostra versione casereccia della “Danza delle Spade” di Aram Khachaturian…Dritto, rovescio, un dritto, un rovescio, una stoccata, i ferri si incrociano, si sfiorano, il destro sul sinistro, ora il sinistro sul destro, un dritto, un rovescio. Sono ipnotizzato da questa danza. Ipnotizzato dalla bellezza della mia mamma, quella immensa bellezza che puoi scorgere solo se sai palpare lo spazio tra lo sguardo di un bimbo mentre affonda gli occhi in quelli della madre.

Oggi, il mio sguardo sprofonda in uno schermo, matasse di dati che vanno ordinati in gomitoli dello stesso tipo di lana e colore, che puoi utilizzare per i tuoi lavori a maglia: le tabelle “pivot”. Le tabelle “pivot” hanno un vantaggio rispetto ai lavori a maglia di lana della mamma: non si slabrano.

United Colors of Excel
United Colors of Excel

Fino al ginnasio, cioè fino a quando arriva il mio ricordo di mamma armata di ferri e matasse, sono andato in giro con quei maglioni fatti da quelle amorevoli mani, la mia scalcinata interpretazione del “grunge” nel portarli slabrati oltre ogni decente misura.

Come oltre ogni decente misura, mi sembra questo lavoro che l’azienda mi ha assegnato: il budget per l’anno prossimo. Numeri in  un gioco di prestigio (mi sembra di essere Mago Silvan), non so perché, non so per chi…visto che probabilmente per l’anno che viene non sarò più in questo buco fetente di ufficio in una via votata a un certo Santo, che invece di proteggerci, temo ce le stia mandando di brutto, visto lo stato di degrado e abbandono in cui versa questa via sfigata di tipica periferia industriale.

A parte la scadenza del mio contratto che potrebbe mettere la parola fine alla mia occupazione abusiva del suolo di questa città – non sono di qui, mi ci sono trasferito apposta per questo lavoro, sì…Sono un migrante –  c’è un’ulteriore aggravante, una certa maretta che si chiama “acquisizione”. Pensa che fortuna! Un povero cristo (lettera rigorosamente minuscola) trova finalmente uno straccio di lavoro, una speranza di costruirsi un futuro e la cosiddetta alta finanza gli rompe le cosiddette uova nel paniere. Altra parola di derivazione inglese: mergerismo. Questo è il fantastico capitalismo!

Oppure semplicemente sfiga.

I pensieri vorticano e si accavallano, si mescolano a sensazioni, cercano di staccarsi dalla massa proiettandosi in avanti, nel futuro prossimo, nel futuro delle intenzioni, dei programmi, degli obiettivi da raggiungere. Questo slancio viene annichilito dalla data stampata sul contratto di lavoro, che a sua volta è stampata sulla parete interna della mia scatola cranica a mò di carta da parati. La carta da parati è demodè. Devo toglierla e dare una bella rinfrescata di idropittura. Sì, ma di che colore?

Moti convettivi di pensieri e sensazioni, confusi e mescolati, si sviluppano secondo un algoritmo “dormiente”, lanciato attraverso una back-door del mio Sistema Nervoso Centrale: assumono una forma complessa, da principio non identificabile, ma applicato un numero di volte elevatisssimo, a ogni iterazione, mi si rivela.

Il risultato finale è un frattale.

frattale

Il frattale della forma dei miei pensieri trova suo naturale alveo nell’onda sonora che accompagna il pestaggio del mio italiano selvaggio sulla tastiera: un disco degli Akron/Family, il cui titolo – per stessa ammissione degli autori – non ha alcun significato. Ma in quest’assurda situazione un senso forse ce l’ha: S/T II:The Cosmic Birth and Journey of Shinju TNT. Un’energia in espansione dall’interno verso la periferia, un’alternarsi di vertigine, senso di sbandamento e liberatoria perdita di controllo; recupero, un accenno di calma apparente e sprofondamento in malinconica rassegnazione e pericolosa abulia. Almost gone for the night. Until another, light emerges.Gli Akron lo cantano: la luce emergerà.

Vorrei pensare al futuro, a un futuro qualsiasi e possibile, ma il segnale passa attraverso la “linea”, producendo rumori non molto dissimili a quelli che emetto nella più intima delle mie ritirate. Il router incaricato di inviare i pacchetti di dati al Sistema Nervoso Centrale emette rumori che, se chiudessi gli occhi e mi affidassi al solo udito, potrei scommettere che è un vecchio modem a 14400 baud. E’ spaventosamente lento e perde pacchetti dati come Hänsel seminava briciole di pane nel bosco. Magari trovassi anche io una casina fatta di pane e ricoperta di focaccia, con le finestre di zucchero trasparente! Strega o non strega, sarebbe comunque un sollievo.

I colleghi dicono che io sia logorroico. Sulla mia logorrea non che ci sia da discutere: è un dato oggettivo. Più si avvicina la data della scadenza del contratto e più la mia inclinazione a parlare si è ridotta ai numeri e tabelle delle “pivot”: non riesco a leggere nient’altro che non siano le bollette del telefono, le scritte sui muri dei cessi e le etichette dei detersivi. Scrivere, invece, non mi pesa, anzi scorre veloce e abbondante il flusso di parole. Piuttosto ho nelle dita una certa paura di esagerare…Ma come dice il Saggio: ‘sticazzi. Il Saggio che conosco io non è proprio un damerino…

Ulteriori slanci non ne ho…sopratutto la voglia…Giuro (giurin giuretto): mi sono sforzato di racimolare le mie ormai troppo confseu (gioco per gli amanti dell’enigmistica…) idee per capire cosa valesse la pena di raccontare in barba alla legge sulla “privacy”, ma, letto quanto fino a qui prodotto, ho la sensazione che Attila sia passato sui miei neuroni o – meglio – neuReni, dato il tasso di cavolate che partoriscono. Avrò perso la “verve”, ma l’autoironia per graziadiDdio no!

Il tanto atteso momento del commiato è ormai giunto e per chi è riuscito a sorbirsi questo sorbetto al limone fino in fondo, la notizia assumerà l’effetto libbbberatorio di fecale memoria, nonostante il limone – si sa – sia un potente deterrente in questo senso…ma tant’è che la prosa dei miei scritti va anche contro natura. Dopo avere decantato le doti lassative del mio scrivere (sono sempre stato un modesto), dubito di riuscire a risolvere in tempo utile i problemi di connessione al Sistema Nervoso Centrale. Praticamente tutto quello che avete letto è già accaduto: scaduto come il latte nel mio frigorifero.

Ah il titolo, dimenticavo il titolo…Ma certo…Il titolo è…Rullo di tamburi…

…Me lo sono dimenticato!

Vostro-precariamente-italiano-vero

Onda sonora consigliata: Danza delle Spade di Aram Khachaturian

Ringraziamenti: Tano, Excel, o’ munaciell’e casa mia, le mercerie di una volta e i gomitoli di lana, Yoshi’s Woolly World (Nintendo Wii U), Aram Khachaturian, i fratelli Grimm, il mergerismo (?!?), Benoît Mandelbrot, Akron/Family e la mamma, cui dedico questa canzone:

Until the Morning di Akron/Family

[…] You say you got a weight to bare
A cross you carry everywhere
I said I know and it ain’t fair
I tell you you can leave that here
Whoa-oh-oh…

And I always wondered
How you carried all that grief
I know it wasn’t right to saddle you with mine
My life, my identity I lay them at your feet
And stand here broken in the mirror of your eyes
‘til the morning…[…]

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15 pensieri su “Lasciatemi scrivere. Sono un italiano vero e…precario

    1. Non so se ci sia “poesia” in una matrice di Excel, tu sei sempre troppo magnanimo con il mio italiano a punto e (molta) croce 😉
      Di sicuro nelle persone, nei gesti e nel lavoro che mi hanno liberamente ispirato. Poesia sopratutto se confrontata con l’aridità di certe parole e pratiche “budget” e “mergerismo”. Gesti inerziali di una società che fa “budget” spesso sapendo di mentire a se stessa. Facevo lo stesso all’Università quando all’inizio dell’anno accademico prevedevo di fare un tot di esami l’anno, però io ero all’Università…
      Grazie alle tue belle e buone parole, sono andato rileggere e se la notte porta consiglio, la mattina del sabato porta qualcosa di altro: qualche limatura, un refuso beccato qui e là, una pennellata di colore, fanno la loro “entrata” anche i fratelli Grimm (Hansel e Gretel, che splendida metafora di questi tempi!) e i ringraziamenti finali. Questo post…è davvero precario 😉

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  1. Corrado

    Caro Claudio, ho letto il tuo pezzo sulla precarietà. Sono ormai un tuo affezionato lettore, e devo ammirare – oltre le tue indubbie capacità letterarie – anche la tua straordinaria ironia nel descrivere una situazione come quella che hai descritto. Ormai la precarietà – forse figlia del relativismo tanto osteggiato da Benedetto XVI – si è impossessata di questi tempi: i nostri padri, i nostri nonni vivevano entro ambiti fatti di maggiori certezze. Certo, credo che quello di precarietà sia un concetto che riguarda la sfera dell’esistenziale, di cui la precarietà lavorativa costituisce solo una delle espressioni. Però mi sento di dire che è dalla precarietà lavorativa che derivano tutte le altre forme di non-stabilità o di instabilità. Continuerò a leggerti, sperando di avere buone notizie. Un abbraccio.

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    1. Grazie Corrado! Devi essere per forza affezionato per scrivermi cose così belle 😉 Fa piacere che su questo straccio di blog si possa parlare di tutto, anche dell’attualità o di aspetti del quotidiano, delle nostre vite, avendo sempre l’attenzione di qualche navigante di passaggio e di chi si è trovato bene in questa webbettola. Il tuo apprezzamento sull’ironia, mi conforta perchè spesso – anche di rcente – viene maleinterpretato come “cialtroneria” o “fuori tema”. Io però non rinuncerò mai all’ironia e, sopratutto, all’auto-ironia; ne trovi ampia prova in uno dei circa duecento articoli ab blog condito. Condivido la tua osservazione sulla precarietà sia nel confronto generazionale sia nella sfera esistenziale. Strano è che proprio i nostri padri e, anche, certa nostra generazione – oggi nella “stanza dei bottoni” – che hanno faticato per raggiungere “certezze” e segnare “punti fermi” (Articolo 18…) siano i maggiori responsabili e fautori di questa diffusa precarietà. Come dissero due vecchietti in treno: “Tanto quelli che dicono di “essere flessibili”, loro il “posto fisso” ce l’hanno.
      Manca solidarietà ed empatia…Assente, persa, decaparecida…uso questo termine perchè la sua scomparsa è tragica come quella di quei poveri disgraziati in Argentina durante la ditttatura militare.

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  2. Ricordo quello stare dritta davanti a mamma a tenere la matassa…quel ripetersi di gesti che ora ricordo con affetto.
    Non credo ci sia colore ad essere un numero, una cella della tabella Excel, un pollo di quella batteria di cui facciamo parte tutti oggi. È un sacrilegio che non ci rende dignità e senza cui possiamo vivere. E tanto più fa male, per me fu così, a lasciare la propria terra senza essere riuscito ad avere certezze.
    Forza !!

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    1. In questo racconto di fantasia, ho provato a mettermi al posto di un giovane, come tanti ne ho conosciuti nel corso della mia vita lavorativa, che – mi ritengo un fortunato – si basa su un contratto a tempo indeterminato. Non che questa sia una certezza assoluta al giorno d’oggi e la prova è che se l’azienda decide una mobilità (vissuta) o una cessione di ramo di azienda, non ti salva nemmeno “il pezzo di carta”. Anche io ho sperimentato la precarietà, ma la precarietà dei miei tempi era con dei termini fissati (contratto di formazione di 2 anni), Oggi ai giovani si chiede un certo grado di specializzazione e impegno contro una precarietà indefinita: devastante sia per il presente sia in termini di progetto di vita. La matassa – ci vuole tempo e fatica – diventa alla fine un bel maglione, la situazione attuale di molti giovani somiglia a una matassa che ridiventa di nuovo gomitolo. La società che non si preoccupa di dare un futuro ai propri giovani è proprio come la nostra terra, incapace di trattenere i propri figli, ma nisciuno se ne importa

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  3. CriticaComunista

    Un sistema che non ha mai funzionato, che pur avendo dei pro ha commesso non so quante aberrazioni (come la nascita del nazi-fascismo). Ho 24 anni e lavoro in un settore, ho studiato per quello, che ancora regge (ristorazione) ma conoscendo bene questo sistema, devo fare i salti mortali per avere roba basilare…non funziona così!
    La vita da cuoco/chef e barista/barman è bella ma sacrificata al max (non hai ferie)…ma vabè, non rinnego nulla.
    Ci sarebbero tante cose da dire…su molte viene solo rabbia!

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  4. Pingback: Vir Napule e po’ Muor.. – Lucky Fred Society Tecnologies

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