Vita, morte e miracolo di un fiore


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Storia di un giovane fiore temerario, che un giorno decise di partire, abbandonando il prato in cui era nato per andare a vedere il resto del mondo.

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C’era una volta un fiore di nome…non importa il nome, i fiori hanno moltissimi nomi e questa storia può andare bene per uno qualunque tra i fiori. Nella sua vita questo fiore faceva…il fiore.

Lo sanno tutti come si fa questa cosa: uno si pianta lì, in mezzo a una zolla di terra (preferibilmente bella morbida, calda e umida quanto basta), sta fermo tutta la giornata guardandosi in giro e, quando il sole tramonta, va a dormire. Certo, questa vita sembra una pacchia, ma come tutte le cose su questa terra, ha anch’essa i suoi pro e contro.

E’ una vera goduria spaparanzarsi tutto il giorno al sole, sentire il suo calore sui petali, stiracchiare lo stelo verso quei raggi, lasciarsi sfiorare le foglie dalla carezza della brezza, sprofondare le radici nella terra calda. Non c’è nulla di meglio che “incrociare” le foglie e rivolgere la corolla al sole!
Meno rilassante, invece, è l’essere strapazzati dal vento e schiaffeggiati dalla pioggia in una tempesta, lampi, tuoni, scrosci d’acqua giù a catinelle. Se non si vuole essere risucchiati dal vento che ti sbatacchia violentemente in tutte le direzioni, bisogna avere una bella forza nelle radici e aggrapparsi tenacemente al terreno, sempre più freddo e fangoso.

La vita di un fiore, dunque, è una vita come tutte le altre: ha i suoi alti e bassi. Ognuno ha un suo “lavoro” da fare. E il fiore di questa storia faceva il suo con un discreto successo e una certa dignità, pure tuttavia senza esserne convinto fermamente. Riferendoci a un nostro simile che fosse nella stessa condizione di questo fiore, avremmo scritto che “aveva grilli per la testa”, ma nella corolla del fiore durante l’arco della giornata vi si trovano usualmente non solo grilli, ma api, calabroni, tantissimi altri insetti e pure un colibrì. Se quindi per un fiore avere dei grilli per la testa rientra nella normalità, il fiore di cui scrivo non era come tutti gli altri: riteneva, infatti, che “fare il fiore” fosse per lo più una …seccatura. Sì questo è il termine esatto che usava e per un fiore il significato di “seccatura” non corrisponde a un passeggero stato di “noia”, ma a un qualcosa di più profondamente negativo e definitivo. No, non era un fiore come tutti gli altri: aveva una voglia irrefrenabile di…partire!…Lasciare tutto e partire.

Per un fiore l’idea di viaggiare è piuttosto strana e, a pensarci bene, anche pericolosamente trasgressiva. Le leggi di Natura, il loro Paese, sono così poche e così semplici che è impossibile che qualcuno possa trasgredirle senza poi pagarne le conseguenze: ognuno resta fermo lì dove nasce fino a che non secca. Le gravi conseguenze di questa trasgressione sono facilmente immaginabili: il rischio di capitare in qualche terra arida e secca; il rischio di capitare in una serra o in un campo coltivato ed essere irrorato da quei veleni di cui gli umani sono così ghiotti, almeno a giudicare dall’uso che ne fanno per il loro cibo; il rischio di finire sull’asfalto o sul cemento e fare una delle fini più orribili che non augureresti nemmeno alle erbe infestanti o a quelle parassite delle rampicanti: seccare l e n t a m e n t e.

E’ evidente, perciò, che l’idea di viaggiare sia un concetto alieno ai fiori…ma questo fiore sentiva che un giorno avrebbe intrapreso un viaggio. Un viaggio, sia verso un luogo lontano sia verso uno vicino, è sempre un lungo viaggio per i fiori. Sapeva che, prima o poi, sarebbe partito, tuttavia non aveva alcuna fretta o ansia. In quanto “vegetale”, se la prendeva comoda per quella “pigrizia” tipica di ogni fiore: gli piaceva stare lì al suo posto in mezzo al prato in cui era nato, a oziare insieme ai suoi simili di campo, cespugli, fili d’erba, ciuffi di trifoglio, papaveri, tarassachi con i loro bei soffioni, primule, margherite, veroniche, camomilla, campanule e muscari. Il viaggio in sé non lo impauriva: avrebbe capito da solo quando fosse giunto il momento di partire. Questo viaggio era nato in lui, con lui, nel giorno stesso in cui, per la prima volta, aveva fatto capolino dalla terra alla ricerca della luce e del calore del sole.

Quel giorno era un Bel-giorno. La frescura del primo mattino aveva ceduto il passo al calore del sole: le foglie degli alberi luccicavano, i fiori schiudevano le corolle, ogni angolo di quel prato era investito da quella luce calda e splendente. Si trattava di un prato come tanti altri, bello come può essere un verde prato in primavera, che ondeggia allo sbuffo di un vento da sud. E questo prato era proprio così. Sette cicogne bianche, dal lungo collo e lunghe zampe, slanciate e superbe passarono alte punteggiando l’azzurro di un cielo particolarmente terso quel mattino, strette in una formazione di volo a V, mantenuta con tale precisione e altrettanta naturalezza, come solo gli uccelli sanno fare. Veloci si allontanarono verso chissà quale altro luogo lontano. Per il momento del loro passaggio il vento portò il suono del battito delle loro ali, che nel silenzio dell’aria circostante, si udì distintamente per poi sfumare e scomparire insieme a quei puntini bianchi.

Quel fiore stava proprio qui, era nato in questo prato. Sbucava fuori da un ciuffo d’erba, tutto disordinato, i lunghi fili verdi s’intrecciavano e s’incrociavamo alla rinfusa, spuntava proprio vicino a un binario, uno di quei ferri stretti e lunghilunghilunghi su cui passa quella macchina chiamata da noi uomini “treno”. I fiori non la conoscono con quel nome perché per loro il treno è un vento improvviso e violento il cui arrivo viene annunciato, pochi attimi prima, da un fischio tipico, un fischio tutto particolare che da nessun uccello mai avevano udito. I fiori di questo prato vicino al binario, poi, non hanno mai visto un “treno” fermo, per cui non vi è da stupirsi se sostengono che si tratta di…vento. Siete mai stati sulla banchina di una piccola stazione di paese? Quando, in transito, veloce, passa un treno, si genera una folata d’aria che subito si placa, un vento appunto.

Quel prato attraversato dalla ferrovia non era poi tanto male. A meno che non fosse nuvoloso, il prato era sempre inondato dalla luce e dal calore del sole; i suoi raggi, infatti, non trovavano alcun ostacolo naturale o artificiale, né montagne né palazzi grigi che gettassero la propria ombra su questo prato. Assai di rado si alzavano venti burrascosi, più spesso spirava una brezza da sud che accarezzava i ciuffi d’erba e i fiori che spuntavano qua e là tra una macchia di verde più chiara e una scura, dando un po’ di colore al tutto. Il soffiare del vento, poi, creava un po’ di movimento: l’ondeggiare a destra e sinistra dei fili d’erba e degli steli dei fiori faceva apparire il prato come un mare verde. Ogni tanto un treno passava e creava un po’ di scompiglio in questa tranquillità: bisognava tenersi forte per non essere strappati via da quel vento così strano, da quel vento che si alzava così all’improvviso e smetteva altrettanto improvvisamente nel giro di pochi attimi. In un solo attimo, infatti, si poteva essere strappati via e portati chissà dove. “Chissà dove?” quel fiore si domandava sempre…e la risposta lo incuriosiva, una curiosità morbosa, che quasi lo tormentava. “Dove porterà?” si chiedeva. E quel “dove” lo attirava in maniera irresistibile, i r r e s i s t i b i l e.
Quel giorno stava per finire. Il sole, come ogni giorno, aveva generosamente illuminato e riscaldato questo prato; ora si ritirava dietro quella collinetta, per ricominciare tutto da capo dall’altra parte dell’emisfero. In breve, il cielo avrebbe perso tutti i suoi colori e il tramonto incendiato le nuvole. La terra, come uno specchio, rimandava la sua luce in cielo colorando di rosa gli sbuffi delle nuvole paffute. Il vento rinfrescò. E le nuvole correvanocorrevano nel cielo. Correvanocorrevano sempre più avanti, come se stessero fuggendo da qualcuno che volesse catturarle.

Quel giorno quel fiore era un pò agitato e non era solo colpa del vento. Triste come si è triste quando qualcosa di bello sta per finire e quel giorno che stava volgendo al termine era stato veramente bello. Inquieto perché di solito, quando il giorno se andava, con esso se ne andavano anche i suoi pensieri; quel giorno i suoi pensieri persistevano nonostante il giorno stesse finendo. Dove? Dove? Quella domanda ricorreva sempre. Dove porterà? DOVE?...dove?

Eccolo! Fischiò. Fu lì in un attimo, velocissimo, una folata, improvvisa, quel vento passò di nuovo, di nuovo come tutte le altre volte. Così come tutte le altre volte quel binario animò tutto lo spazio circostante. Quel binario così freddo, fermo, inanimato poteva fare vibrare di vita tutto ciò che lo circondava. Un fischio, poi il vento ed era stato subito uno scricchiolare delle traversine, i ciottoli che si scuotevano, i ciuffi d’erba sbattuti con forza, ora tutti da una parte, l’attimo dopo tutti dall’altra, ogni singolo stelo di fiore o filo d’erba che sia si agitava cercando semplicemente di rimanere lì dove era. Foglie e petali si staccavano, salivano in aria, mucchietti di terra polverosa che in un attimo venivano spazzati via, via per riformarsi un po’ più là.

Tutto veniva agitato, scosso, mosso: la vita faceva sentire con chiasso la sua presenza. L’ordine di quella dolce calma, così dolce come può esserlo la quiete di un prato, sovvertito dal disordine caotico di mulinelli d’aria che si avvolgono attorno a se stessi insieme a polvere, foglie e petali.

Quel caos era la vita che si faceva sentire con chiasso, forte pulsava in ogni cosa.

Vento, vento e vento.

Arrivava così all’improvviso e così violentemente, strappava e portava via ciò che poteva. Quel fiore si tenne, si tenne alla terra, si abbarbicò alle radici. Sentì l’aria risucchiarlo, si tenne, sentì l’aria tirarlo, si tenne, poi…si lasciò andare, mollò tutto e volò su.

Nell’aria continuò a girare e roteare, sballottato ora in su, ora giù da sbuffi e soffi. Un vortice lo risucchiava, una raffica lo trascinava. Più volte fu vicino a essere sbattuto al suolo, più volte fu portato da una folata improvvisa a un’altezza tale che gli parve di uscire dal mondo. E dal suo mondo ne era uscito per davvero. Ma non ebbe mai paura, neanche per un momento. Nella scia delle turbolenze del treno, veniva sballonzolato insieme a foglie, polline, petali, terra, pagliuzze, granelli di sabbia, semi, insetti. Tutto come se fosse ancora sul prato. No, non era ancora uscito dal mondo: semplicemente aveva scoperto che era più grande di quanto credesse. Molto più grande del prato dove era nato.

“Fare il fiore” non l’aveva mai entusiasmato, non che gli dispiacesse: andava fiero di essere fiore, ma non era felice di essere obbligato a stare fermo in unico luogo. Ora, si muoveva: era bellissimo essere trasportati su e giù da brusche correnti, eccitanti le rapide accelerazioni e decelerazioni, i cambi di traiettoria laterali, trasversali, in ogni direzione, davano un senso di libertà unico. Sì, ammetteva, tutto questo movimento era costretto a subirlo, è vero. Certo, sarebbe stato perfetto avendo un paio d’ali…potersi muovere liberamente, ma era roba da uccelli. E lui era un fiore.

A un tratto, un’ennesima folata, una delle tante, lo portò in alto…stava per riprendere la sua caduta verso il basso quando una forte corrente ascensionale lo tirò su, ancora più su, a un’altezza possibile per un uccello. E da lì vide!

Vide una “cosa” che percorreva quei due ferri stretti e paralleli, parte del panorama del suo prato dal giorno del suo primo schiudimento. Erano lunghilunghilunghi e non si capiva dove finissero: era questa “cosa” a creare quel vento!

Con sua grande sorpresa e soddisfazione, capì finalmente cosa fosse quel fischio, quel “vento” che subito dopo si alzava e, improvviso come era venuto, così finiva. E mentre ammirava tutte queste cose, cominciò la sua lenta e inesorabile caduta verso terra. E si accorse che, intorno, il verde dell’erba aveva ceduto il posto a una distesa grigiastra molto poco rassicurante. Più scendeva e più poteva vedere da vicino. Quel grigio lo metteva in agitazione. Quando fu abbastanza basso poté vedere bene: era asfalto e cemento. I rischi cui andava incontro li aveva sempre conosciuti e tutto sommato ciò che aveva visto grazie a questo viaggio era molto più di quanto avrebbe potuto sperare di vedere restando tutta la sua vita in quel prato. Ne era valsa la pena ed era felice Non importava la fine che avrebbe fatto. Era felice. Quel fiore giunse al termine del suo viaggio posandosi su un marciapiede di duro e grigio asfalto e così finì…

Finì.

Finì ai piedi di una ragazza che passava di lì proprio in quel momento. Io ero lì e ho visto tutto. Ho visto scendere il fiore dall’alto e posarsi sul marciapiede mentre una ragazza avanzava nella sua direzione con un passo che denotava un misto di fretta, determinazione e insicurezza. La ragazza camminava come se poggiasse i piedi su un tappeto di gusci d’uova vuoti: il passo attento e leggero per non cercare di rompere il guscio, senza soffermarsi troppo e l’attimo dopo, il passo successivo seguiva con decisione e, di nuovo, con pari cura e ansia, il passo successivo. Un suono che riconoscerei a occhi chiusi. Distinto nella solitudine di quel marciapiede nelle prime ombre della sera, ma distinguibile anche nella folla che alle ore di punta gremiva entrambi i lati di quella strada. L’effetto era di essere di fronte alla nascita di una piccola Venere che muove i suoi primi passi sfiorando la superficie dell’acqua. Un suono che entra dentro e costringe il cuore a sincronizzarsi con quei passi: il battito resta sospeso  quando la punta del piede si alza nell’aria e riprende a battere quando il tacco tocca di nuovo terra.

Era un giorno particolare anche per questa ragazza: era il giorno del suo compleanno. La ragazza all’improvviso si bloccò. Si piegò sulla schiena. Indossava una gonna di un colore tra il verde e il marrone, quasi “fango”, ne percorsi con lo sguardo la lunghezza delle sue belle gambe prima di congiungermi al movimento del braccio verso terra: aveva notato il fiore, un punto colorato in mezzo al grigio, un profumo in mezzo a tante puzze. Sorrise, lo raccolse delicatamente, si guardò in giro; mi ritrassi per paura che si accorgesse di me dentro la sua storia. Lo girò tra le dita per ammirarne la bellezza, un leggero velo umido sui suoi occhi scuri e profondi tradirono l’emozione, vennero giù due lacrime, parallele come i binari della ferrovia. Sorrise nuovamente e sistemò il fiore tra i suoi profumati capelli scuri. E lo portò con sé. E lo portò con sé, a casa.

Buon compleanno.

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Epilogo: nel momento in cui la ragazza pianse quella singola lacrima, avvertì distintamente una vibrazione nell’aria tra lei e il fiore, una leggerissima brezza si alzò proveniente esattamente dalla loro direzione, quasi si fosse generata in quel preciso punto, in quel preciso momento. Durò il tempo di accarezzarmi la guancia e oltrepassare l’orecchio: mi bastò per distinguere una melodia e in mezzo delle parole che somigliano a un verso di una canzone che fa così: “E ti ringrazio, per avermi portato qui, per avermi mostrato la mia casa, per aver cantato queste lacrime. Finalmente ho scoperto che la mia casa è qui“. Il fiore aveva trovato la sua vera “casa”.

Ringraziamenti:

Immagini tratte da Flower © 2009 thatgamecompany per PlayStation Network. Uno dei migliori videogiochi per Playstation 3, perla di semplicità, ingegno e originalità, capace di generare un genuino senso di “meraviglia” come quello del bimbo che sperimenta le cose del mondo per la prima volta. Con giusto merito dal 2103 fa parte della Collezione permanente “Films and Media Arts” presso The Smithsonian American Art Museum (Washington D.C.).

45 pensieri su “Vita, morte e miracolo di un fiore

    1. Grazie! In questi tempi bui in cui siamo abituati ad operare selvaggiamente ogni forma di lettura selettiva, è una autentica gioia e soddisfazione incontrare un lettore che arrivi fino alla fine prima di farsi una (vera) idea di ciò che uno s’è dato pena di scrivere (magari anche male, per carità). Questo post è poi lungo e va contro ogni “legge” di scrittura sul web…ti è pure piaciuto. Che dire? Ti tributo il trionfo e dichiaro tre giorni di festeggiamenti con tanto di banchetti per il popolo, spettacoli gladiatorii e circensi (Nessun animale è stato maltrattato durante la produzione di questo commento) e – crepi l’avarizia – pure corse di carri.

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  1. … arrivo! arrivo! EHIIII!!!! Osteeeee! ci sono anche io!!!!!! ( si vede solo la mano da dietro il bancone del bar…)
    Che bellezza! come ho fatto a rischiare di perdere una storia così bella!?!
    Si intravedono perfettamente i colori, la luce e si sentono i profumi… I PROFUMI!! quanti sono e che meraviglia!
    Bravo Oste, veramente una storia speranzosa, profumosa e dolce…
    Clap! Clap! Clap! 😀

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    1. Mi inchino in segno di devoto ringraziamento di fronte ai tuoi applausi. Non mi vedi in viso così piegato e sul palco c’è ancora un po’ di penombra, ma sorrido. Quando rialzo la testa, puoi vedermi in volto: un sorriso con le labbra, le guance, gli zigomi, gli occhi, quei sorrisi che si dipingono naturali sulla faccia come solo a un bimbo felice. Faccio un passo avanti e ti porgo un fiore che spunta da un piccolo vaso. Perdonami non riuscirei a reciderlo per dirti “grazie” per queste tre parole “speranza, profumo e dolcezza” che ho provato a raccontare.
      Ps: ho fatto bene, sentivo che avrei fatto bene. Non ne ero sicuro, ho avuto quei tentennamenti che hai descritto in quel tuo post, ma forse sono state proprio quelle tue parole a farmi decidere di rischiare. Besos

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  2. Pingback: la forza del tenere e quella del lasciare… | comelapolvere

  3. arrivato qui sull’aquilone di Tati (è giornata di cose nel vento, a quanto pare) ho avuto la fortuna di vedere il fiore mentre volteggiava in aria e poi dall’alto l’ho visto mentre la ragazza lo raccoglieva dal marciapiede. A me è sembrato che lo sistemasse al tepore tra i seni, ma da lontano non ci vedo bene 🙂
    ml

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