I giorni che passano


Foto di Rinko Kamauchi pubblicata in Murmuration © 2010
Foto di Rinko Kamauchi pubblicata in Murmuration © 2010

Ancora zuppo della pioggia e della malinconia di Rain, ultima rêverie digitale di Sony Japan Studio per PlayStation 3, in un programma televisivo intercetto un sottofondo musicale che mi colpisce subito. Sia sempre lode a Shazam e scopro che si tratta di un mia vecchia conoscenza musicale: Patrick Wolf. La canzone è The Days pubblicata nell’album Lupercalia. Questa canzone è una di quelle la cui combinazione armonica riesce a illuminare il buio in cui erano sprofondate certe tue emozioni per le quali non hai mai avuto le parole giuste per esprimerle o, per lo meno, raccontarle a te stesso. Imbraccio allora la mia fida tavola da surf e mi getto tra i versi, cavalco le onde della musica, cercando le parole giuste per descrivere lo spazio tra un verso e l’altro, come il surfista alla costante ricerca dell’onda perfetta. Uno spazio non vuoto, ma sorprendentemente denso di sensazioni, che ho provato a descrivere in questa storyetta. L’ambizioso intento era quello di accarezzare quelle onde di musica e versi come il vento accarezza le onde del mare. A chi legge la sentenza: brezza profumata di salsedine o folata di discarica abusiva?

Giorni, i giorni, i giorni che passano, il tempo scorre, i giorni…passano. Ne seguo i vortici delle ore, i mulinelli dei minuti, i rintocchi dei secondi dall’alto della torre del campanile, la campana che rintocca, scandisce i secondi di questi miei giorni che passano. Passano…passano.

Assisto al tramonto del sole che sprofonda arrossendo la terra, il cielo e il mare.

Di rosso rubino d’un tratto si avvampano le mie guance al pensiero dei minuti, delle ore, dei giorni trascorsi in ammirazione e contemplazione di questo e di tanti altri tramonti, immobile, senza fare nulla. Il sole, fiera fenice che risorge dalle sue ceneri ed io, libellula.

Il tempo sembra fermarsi, sgomento che il sole possa sparire così e fino al giorno dopo. Persino il traffico dell’ora di punta la cui calca e urgenza non diminuisce per nessun motivo, sembra rallentare. Ed è in questo momento che tutto rallenta, sento crescere più forte il suono del battito del mio cuore che mi conforta nell’imminente oscurità. Pompa sangue, a fiotti, per riscaldare questa mie vecchie carni e fredde ossa.

A lungo, ormai, ho sopportato il peso di certi giorni il cui tramonto sembrava non giungere mai, l’oscurità della notte che m’inghiottiva ma il sonno non sopraggiungeva per portarmi via, lontano, in qualsiasi luogo o non-luogo, fosse anche spoglio e vuoto, unico e solo rifugio nell’attesa che quel maledetto giorno passasse. E tante volte mi sono levato in alto, più forte del giorno prima, ma di nuovo vulnerabile ai giorni che sarebbero arrivati dopo. Giorni, i giorni che passano.

I giorni che ricordo.

Il tuo amore, i giorni in cui avevo il tuo amore. Il tuo amore occupava il mio corpo per intero. Il tuo sorriso, i tuoi sguardi, il tuo solo sfiorarmi, il tuo modo di camminare, il tempo sembrava fermarsi, anche il traffico nelle ore di punta rallentava, il mio cuore batteva forte, sangue a fiotti, fiotti gonfiavano vene e arterie e ogni tessuto se ne scaldava e traeva energia. E se per caso, un caso folle, improbabile, per un’ipotesi delle più assurde, mi rivolgevi la parola, al guardare le tue labbra muoversi il cuore batteva più forte, farfalle nello stomaco come vento che preannuncia il terremoto, un calore si espandeva dal centro dello stretto torace e, come onda di piena, travolgeva con un sordo quanto terribile urto tutto ciò che gli si frapponesse per guadagnarsi l’esterno. Per raggiungere te.

I giorni che ricordo.

Avevo il tuo amore una volta, riempiva il mio corpo interamente. E il nostro primo bacio.

Ho pensato “è accaduto per caso, un caso fortunato”. Non poteva capitare proprio a me. Non poteva essere vero. Va bene, ho pensato, sarà capitato anche per caso, ma quel giorno la mia anima ha incontrato Dio. Ho provato quella felicità che i suoi messaggeri ci hanno promesso…

…alla fine dei nostri giorni.

Giorni, i giorni passano.

E il tempo ha fatto il suo corso. E ho condotto il mio amore lontano, lontano da te. Distante, ho sperimentato vuoto e solitudine anche in mezzo al traffico delle ore di punta la cui calca e urgenza non diminuisce per nessun motivo. Perso, incapace da solo di trovare la strada. Una strada. Una direzione.

Ma quanto a lungo avresti potuto sopportare prima che ritrovassi la strada che mi riportasse a te?

Giorni, i giorni passano.

La distanza e solitudine, in cui ero perso, ha portato il tuo amore lontano, lontano da me.

Ho cercato con tutte le mie forze di sollevarti in alto, al di sopra e fuori dalla solitudine e dal vuoto di quei miei giorni. Giorni, ma i giorni passano

… … …

… …

Giorni che passano

Giorni che passano

Giorni.

Ora chiudi gli occhi e cercami in quello che senti dentro di te.

Siamo troppo lontani o almeno un po’ vicini?

Perdonami, ti prego, anche da fantasma prometto che t’incontrerò

T’incontrerò alla fine dei giorni

I giorni, giorni che passano

Mi vorrai incontrare alla fine dei giorni?

Foto di Nan Goldin pubblicata in The Ballad of Sexual Dependency © 1986
Foto di Nan Goldin pubblicata in The Ballad of Sexual Dependency © 1986

Credits

Ringraziamenti a Patrick Wolf per The Days; a SCE Japan Studio/Aquire per  Rain su PlayStation 3; a Yugo Kanno per la colonna sonora di Rain e alla piccola Connie Talbot per la sorprendente interpretazione vocale di Claire de Lune di Claude Debussy

Onda sonora consigliata: The Days in Lupercalia di Patrick Wolf

7 pensieri su “I giorni che passano

  1. Rileggendolo oggi, a distanza di tempo, con la conoscenza intercorsa, gli scambi avvenuti, asaume un significato ancora più intenso e complice. Rinnovo il piacere di leggerti e di conoscerti. Grazie amico, perchè nelle tue parole trovo anche un po’ di me. Forse eravamo insieme in quella strada a giocare a biglie mentre il sole tramontava..

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    1. Sì e c’era anche un terzo…
      Non lo puoi vedere da lì, ma accanto a me, c’è Narciso e mi porge sul palmo della mano una biglia, un caleidoscopio di colori imprigionato nella forma perfetta di vetro. Ha un’espressione strana…un’espressione proprio da…bambinO. Che c’è nennè? Vuoi giocare a biglie?…Ah! Capisco…Sì ora glielo dico a zia tiZ…Sono orgoglioso di te [accarezzo sui boccoli Narciso]
      tiZ…Questa biglia è per te.

      … …

      Narcì, vieni andiamo a costruire la pista con il giro della morte…Non ne ho la minima idea come si possa fare, ma qualcosa vedrai ci inventiamo…
      [videro i due allontanarsi in direzione dell’orizzonte, due silhouette inscritte nell’emiciclo del sole che incendiava quella quella linea disegnata lì dove sembrava finire il mondo arancio. UnO, alto e allampanato che sembrava (s)trascinare il passo, e l’altrO, tarchiato e saltellante, che – a causa della sua statura diversamente alta, era costretto ad aumentare la frequenza del passo e, di quando in quando, recuperare la distanza con un balzo. Sembrava uno di quei cagnolini di piccola taglia che camminano intorno e tra le gambe dell’amato compagno bipede, la coda scodinzolante a mulinello e un sorriso felicemente beota stampato sul muso.
      Tra i due, però, quello che aveva il sorriso più felicemente beota era quello alto che cammenava ‘e renza]

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